“Comedown Machine” degli Strokes
di Alessio Belli / 6 maggio 2013
Esce l’ultimo degli Strokes e si fa sempre la cosa più sbagliata: paragoni con il passato. Quanti ascoltatori della band di NY a ogni nuova uscita fanno puntualmente il paragone con Is This It o Room On Fire? La maggioranza. Il brutto è che nel fare tali accostamenti non ascoltano nemmeno come dovrebbero l’ultima creazione. Ora, il sottoscritto non crede sia produttivo – in generale, e soprattutto nell’ambito musicale – fare paragoni con le opere del passato. Sarebbe come livellare i R.E.M. di Murmur con i R.E.M. di Automatic For The People. Ogni opera, va valutata per la propria essenza e contesto, per i tempi e le modalità che l’hanno generata. Solo così si può capire che disco spettacolare sia Comedown Machine.
I nuovi Strokes sono nati dalle ceneri di First Impressions of Earth. Con il terzo disco si portava a compimento il percorso inedito e ormai storico del citato capolavoro d’esordio, Is This It, del 2001. Che fare? Continuare sulla medesima strada fino a consumarla o virare verso nuovi paesaggi? Casablancas & Co. scelgono la seconda opzione. Il risultato – a dieci anni esatti dal principio – è Angles: lo sfoggio di tutte le sfaccettature di ogni singolo componente. Un disco che era una genuina – quindi spesso grezza e poco mirata – proposta di nuova vita. Due anni dopo, la proposta viene ricalibrata e messa a punto. Il risultato è Comedown Machine, la cui copertina monocromatica e old-style è in clamoroso contrasto con quella di Angles.
A formare gli Strokes del disco c’è lo stile di altre band coetanee, Phoenix su tutte. Ascoltate i momenti più dance e ballabili e ne avrete la prova. Come l’iniziale “Tap Out” che nell’incedere ricorda la bellissima “Machu Picchu” del lavoro precedente. Alle orecchie arriva subito anche la performance vocale di Casablancas, improntata sul falsetto: una soluzione che ripeterà più volte in Comedown Machine. Avviso importante: si può rimanere inizialmente spiazzati. Ma dopo qualche ascolto ci si accorgerà di cantare il brano come se lo si conoscesse da sempre. Il vecchio e inamovibile supporter del gruppo ha poi pane per i suoi denti con la successiva “All The Time”. Poche parole per questo brano: gli Strokes che suonano alla loro maniera. Ma ecco “One Way Trigger”: dance anni ’80 – echi degli A-ha – per il primo singolo dell’album. Vale il discorso di “Tap Out”: ci vogliono un paio di ascolti, ma alla fine il pezzo trascina. Anche perché Valensi e Hammond sfoderano da subito chitarre considerevoli. Lo faranno per tutto l’album, e soprattutto in “80’s Comedown Machine”, una delle canzoni in assoluto più belle degli Strokes. Per il resto, piace tutto: sia i momenti slow – “50 50” e “Partners In Crime” – sia quelli più furoreggianti.
Comedown Machine è quindi la dimostrazione di una band che a discapito di tutto ancora cerca di tirare fuori linfa vitale dalla propria musica. Potrà piacere o non piacere, ma per stare tra i primi, bisogna togliersi i paraocchi e tagliare i fili con il passato. E ascoltare liberamente il gruppo che – insieme agli Interpol – ha dato un senso e un valore alla parola indierock.
(The Strokes, Comedown Machine, 2013, RCA)
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