“Allucinazioni” di Oliver Sacks
di Michele Lupo / 17 ottobre 2013
Senza voler azzardare nessun serio paragone fra uno scrittore e uno scienziato, per quanto eccentrico, Oliver Sacks questo è, un neurologo per la precisione, e come tale lavora: organizza e ridefinisce stati mentali e casi individuali in tipologie, circoscrive categorie cliniche, sottopone a verifica intuizioni ecc. Eppure, qualcosa nel suo approccio rimanda un po’ al Proust non della memoria ma della scienza involontaria così come ce lo ha a suo tempo descritto Deleuze in un vecchio fondamentale libretto di molti anni fa.
È che l’occasione, la circostanza fortuita, l’apertura al caso fuori dal laboratorio sono parte integrante del lavoro di Sacks. E così i tratti soggettivi dell’approccio.
In quest’ultimo libro tradotto al solito da Adelphi, il noto neurologo prosegue nella sua «forma di arte empatica» (come la chiama Roberto Calasso nel risvolto di copertina) raccontando da par suo il mondo delle Allucinazioni: termine in realtà aperto a suggestioni molteplici e per questo necessitante una definizione che non lo faccia vagare in un mare troppo vasto di significati. Quella che egli dice di preferire la si deve a William James che la formulò nel 1890: «Un’allucinazione è una forma di coscienza strettamente vincolata alla sensazione, una sensazione piena e autentica come in presenza di un oggetto reale. Il punto è che l’oggetto non c’è».
La “storia naturale” delle allucinazioni dimostra innanzitutto che il fenomeno in causa riguarda molte più persone di quelle che una convenzionale abitudine ci fa ritenere. Non siamo necessariamente (solo e sempre) in un ambito patologico. A questa conclusione Sacks arriva anche da esperienze personali legate alla giovinezza californiana degli anni Sessanta. Richiamare l’uso coevo e freak di un certo tipo di droghe è fin troppo facile: notoriamente «offrono una scorciatoia, permettono la trascendenza a richiesta». Negli anni di Abbie Hoffmann, Sacks comincia con la cannabis, passa attraverso l’LSD e i semi di ipomea. La “visione” per lo scienziato come per i suoi pazienti, è colore innanzitutto (l’indaco riuscirà a vederlo solo così), ma anche suono, sinestesia, autonoma fabbricazione filmica (come nel “cinema del prigioniero” indotto dalla deprivazione sensoriale di certe camere di tortura). Con la depressione e l’insonnia sopravvenute nel ’65 e il ricorso al cloralio idrato, le allucinazioni del celebre neurologo (e scrittore, va detto, non accidentale se è vero che – parole sue – per capire ciò che fa ha bisogno di scrivere) si fanno più acute (e non hanno bisogno di facilitazioni chimiche esterne).
Il rimando a tutto un mondo letterario e artistico sorge altrettanto spontaneamente nella ricerca di Sacks, che si smarca da una lettura meramente patologica del fenomeno al punto di affermare che «dovremmo chiederci in quale misura l’arte, il folclore e perfino la religione abbiano avuto origine da esperienze allucinatorie». Basti pensare al tema del Doppelgänger da Allan Poe a Maupassant. E a quanto psicosi organiche o narcolessi o epilessie (il «male sacro» di Dostoevskij) abbiano contribuito letteralmente a scrivere la nostra civiltà, sebbene a tutti noi faccia comodo pensare a un mondo bianco o nero di salute o malattia. Non è che invece «i motivi geometrici che si vedono nelle emicranie e in altre particolari condizioni prefigurano i motivi dell’arte aborigena»? Per esempio.
(Oliver Sacks, Allucinazioni, trad. di Isabella C. Blum, Adelphi, 2013, pp. 323, euro 19)
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