“La Piramide” di Juan Villoro
di Giulia Zavagna / 29 novembre 2013
Messico, un passato terribilmente recente, un’atmosfera a tratti apocalittica e fin troppo verosimile: con La Piramide (Gran Vía, 2013) Juan Villoro, scrittore messicano di rado arrivato fino a noi, fa il suo ritorno in libreria.
In una narrazione fluida e continua, il romanzo è animato, come nella migliore tradizione latinoamericana, da una galleria di personaggi originali e quantomeno bizzarri, molto ben delineati. Tutti sembrano essere vittime, ognuno a suo modo, di un passato del quale ricordano tutto o niente, ma che li perseguita. Il solo fatto che vivano in un albergo fa di loro esseri transitori, senza patria né legami. Un esercito di “sopravvissuti” che, in un modo o nell’altro, è attirato verso la Piramide, quasi il complesso turistico in cui la storia è ambientata – centro e ulteriore personaggio del romanzo – fosse un catalizzatore di miseria umana. E in un certo qual modo lo è, perché non si tratta di un albergo come tutti gli altri: presso la Piramide, infatti, si organizzano vacanze non solo avventurose, ma al limite del pericolo, del rischio e della paura, secondo la teoria della “paranoia ricreativa”: «Non vendiamo tranquillità. Su tutti i giornali del mondo pubblicano notizie orrende sul Messico: corpi mutilati, volti sfigurati dall’acido, teste mozzate, una donna nuda appesa a un palo, pile di cadaveri. Tutto ciò provoca panico. E questo, per assurdo, è ciò che vuole provare certa gente che vive in posti tranquilli. […] Se sentono paura, significa che sono vivi: vogliono riposare sentendo paura. Quello che per noi è orribile per loro è un lusso. Il terzo mondo esiste per salvare gli europei dalla noia».
Questa la dichiarazione di intenti di Mario Müller, gestore dell’albergo e inventore di questa forma di turismo perverso, che sembra avere molto successo quando tutti gli altri alberghi della zona sono ridotti a spettrali casermoni vuoti. È in questa cornice – in questo «Disneyland con herpes» in cui degli attori inscenano rapimenti e sparatorie e le telecamere registrano praticamente tutto – che i nostri personaggi cercheranno una via di riscatto.
La voce narrante è quella di Antonio Góngora, detto Tony. Ex bassista di una rock band messicana, ex tossicodipendente, ha da poco trovato un angolo di pace presso la Piramide, dove lavora grazie all’amico di sempre: Mario, un tempo cantante del gruppo. La Piramide è, anche e soprattutto, la storia della sua redenzione. Antieroe per eccellenza, Tony è il risultato di una serie di sfortunati incidenti: da bambino un’auto l’ha investito lasciandolo zoppo per tutta la vita; lo scoppio di un petardo, pochi anni dopo, gli ha portato via un dito, la droga, poco più avanti, gli ha sottratto l’amore e metà dei ricordi. Alla Piramide lavora anche Sandra, istruttrice di yoga che «allenava i turisti al controllo della violenza e gli attori alla sua rappresentazione»: americana, da oltre vent’anni in Messico, si è lasciata apparentemente alle spalle un passato di droga e prostituzione. Il Gringo Peterson, infine, è il proprietario del complesso turistico. Anche lui americano, ha una vita mediocre e felice che in poco tempo crolla: perde il figlio e la moglie nel giro di un anno e, per ironia della sorte, non si può arruolare per il Vietnam, in un momento in cui la guerra gli sembra l’unica soluzione possibile per porre fine a una vita che d’improvviso si trasforma «in qualcosa che era già accaduto. Il resto, il futuro, non esisteva».
Ciò che scuoterà ulteriormente queste esistenze tormentate, che hanno trovato il loro apparente equilibrio nell’assurda dinamica della Piramide, è l’omicidio di due sommozzatori: uno dei due viene trovato morto nell’acquario dell’albergo; l’altro, suo amico e amante, qualche giorno dopo, affogato durante un’immersioneal largo della costa messicana. Il pericolo reale e tangibile sembra quindi infiltrarsi nella violenza programmata dell’albergo, e il fatto che i due morti sono “gringos”, americani, non può che peggiorare le cose. Le successive investigazioni faranno luce non solo sull’omicidio, ma anche sulla natura dell’hotel e sul comportamento di Mario, che scopriremo essersi identificato con «un dio ordinato e capriccioso, sovrano del controllo e del timore». Il suo regno, allusivamente battezzato la Piramide, diventa quindi metafora dell’intero Messico, che Villoro vuole mostrare senza mezzi termini, con tutto il suo carico di violenza e disperazione.
L’improvviso declino della Piramide non è solo il riflesso della situazione dell’intero paese, ma anche del declino psico-fisico di Mario, il suo ideatore. Da divinità onnipotente nel suo stesso regno, da apparente benefattore, Mario, in fin di vita, non è che un sopravvissuto lui stesso: farà in modo di lasciare ciò che resta della sua vita in mano a Tony, in un gesto che è tanto egoistico quanto generoso, poiché gli darà finalmente la possibilità di ricostruirsi una vita.
Attraverso personaggi impeccabili e dialoghi brevi e pungenti, Villoro ci racconta il suo Messico, con una critica visionaria che filtra dappertutto, in primis dalla lingua stessa. Sullo sfondo troviamo – come già nel Bambino che collezionava parole, di Juan Pablo Villalobos – il dramma delle persone che gravitano intorno ai narcos, soprattutto donne e bambini, maltrattati, abbandonati o uccisi. Frequente è la contrapposizione con l’Europa e, soprattutto, con gli Stati Uniti. In questo senso, è proprio il Gringo Peterson a offrirci i commenti migliori: «Sei messicano, Tony. Voi non avete bisogno di una guerra per intossicarvi. Qui la realtà è già alterata».
(Juan Villoro, La Piramide, trad. di Maria Cristina Secci, Gran Vía, 2013, pp. 240, euro 15)
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