“Blue Jasmine” di Woody Allen
di Francesco Vannutelli / 6 dicembre 2013
Jasmine aveva una vita ideale. Sposata con un ricco agente finanziario di New York, godeva del suo appartamento a Park Avenue, delle sue ville al mare e in campagna, della mondanità falsa ma elegante che la circondava. Era un mondo perfetto, senza sussulti, che crolla quando il marito si rivela essere un truffatore che spendeva il denaro degli altri per il suo impero di bugie senza strutture. Finisce tutto molto più in fretta di come era stato costruito. Da un giorno all’altro Jasmine si ritrova col marito in prigione e senza più un soldi in tasca. Il giorno dopo il marito si impicca in carcere. A Jasmine non rimane che salire su un aereo (senza più un dollaro, ma comunque in prima classe e con set completo di valigie firmato) per raggiungere la sorella a San Francisco e ripartire da lì. È esaurita, Jasmine, i nervi hanno ceduto, parla da sola, o con interlocutori casuali a cui racconta senza freni tutti i suoi più recenti drammi, e la sorella la accoglie per questo, pur sapendo che tra loro sono molte di più le differenze che le somiglianze e che la distanza sociale che il tempo ha scavato tra di loro è nettamente più forte dell’affetto.
Se si tralascia Basta che funzioni, girato nel 2009 ma basato su una sceneggiatura rimasta congelata dagli anni Settanta, era dal 2004 di Melinda e Melinda che Woody Allen non ambientava uno dei suoi film negli Stati Uniti. Per questo nuovo debutto nel cinema statunitense, dopo le esperienze maturate in giro per l’Europa con episodi più o meno fortunati, decide di partire da due presupposti nuovi per il suo cinema abituale: gira solo in parte a New York, lasciando che il centro della nuova vita di Jasmine sia San Francisco, e soprattutto rinuncia all’abituale arteficio narrativo dell’alter ego in cui il pubblico possa riconoscere il personaggio simbolo di Woody Allen stesso, il nevrotico nervoso che ha sempre contraddistinto le sue commedie romantiche.
La novità di Blue Jasmine nella filmografia alleniana è proprio nel personaggio protagonista, una donna, già altre volte al centro della storia sin dal titolo (si pensi al più celebre e celebrato tra tutti i suoi film, quell’Annie Hall diventato in Italia Io e Annie, o Alice, o il più recente Vicky Cristina Barcellona), ma mai come in questo caso, eccezion fatta forse per il personaggio di Gena Rowlands in Un’altra donna, dettagliato e approfondito.
La Jasmine a cui Cate Blanchett presta superbamente corpo, voce e spirito, è un personaggio carico di sfaccettature e contraddizioni, fragilità e arroganze, probabilmente il miglior personaggio femminile mai scritto da Allen nella sua infinita carriera, tra i suoi migliori personaggi in assoluto. Falso sin dal nome inventato, scelto per dare un tocco di esotismo rispetto al più comune Janet, il personaggio di Cate Blanchett vive proiettato in un mondo di finzione e apparenza, di ipocrisia sociale propria di quel mondo dell’alta borghesia statunitense verso cui Allen si è mostrato già più volte sprezzante. Non c’è ottimismo di redenzione verso facili lieti fini: il potere e il denaro corrompono lo spirito ancor più che i costumi, abituano a uno stile di vita che porta a disprezzare il semplice alla ricerca di una patina più lucente, che rende incapaci di guardare all’essenza delle cose. La disperazione per il crollo gerarchico di Jasmine, il suo esaurimento, non è legato alla scoperta della delinquenza finanziaria del marito, ma alla perdita della condizione sociale, all’imbarazzo derivante dal diventare oggetto dell’osservazione e dello scherno altrui.
Per il resto c’è poco da dire: Allen continua a sapere dove mettere la macchina da presa, come far recitare i propri attori (oltre alla straordinaria Cate Blanchett vanno citati almeno il laido Alec Baldwin e la sorella Sally Hawkins), a saper descrivere con accuratezza di dettagli differenti strati sociali. Rispetto alle grandi glorie del passato, mancano complessità di letture ulteriori, le battute fulminanti e i riferimenti abituali alla psicanalisi o al cinema svedese in grado di fornire le consuete, rassicuranti coordinate allo spettatore, ma Blue Jasmine ha il non comune pregio di raccontare un dramma senza drammatizzarlo, empatizzando con la protagonista senza rinunciare a mostrarne tutti i limiti.
(Blue Jasmine, di Woody Allen, 2013, commedia, 98’)
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