“Chi resta deve capire” di Cristina Lio
di Giusy Barbieri / 8 gennaio 2014
Cristina Lio, figlia di madre disabile e padre obiettore di coscienza, è cresciuta nella comunità di accoglienza a cui si sono uniti i suoi genitori. Da questa esperienza nasce il romanzo Chi resta deve capire (Edizioni E/O, 2013), che racconta l’adolescenza di una ragazzina nata e cresciuta in una comunità calabrese degli anni Ottanta.
Il romanzo mostra quindi due realtà. Da un lato c’è la realtà oggettiva, che oggi non esiste quasi più, di una struttura concepita solamente per la condivisione, senza fini di assistenza sociosanitaria, in cui più persone scelgono di gestire un luogo che possa accogliere tossicodipendenti e persone affette da handicap. Un luogo in cui convivono gli individui più disparati e ciascuno di essi ha un ruolo che permette di portare avanti la comunità, in un girotondo di inservienti, tossicodipendenti, disabili, obiettori di coscienza, preti. E bambini.
È di una poco più che bambina la seconda realtà del libro, la realtà soggettiva di un’undicenne che ha sempre vissuto in comunità, identificandola con la sua famiglia. Il centro d’accoglienza viene raccontato proprio attraverso gli occhi di questa ragazzina e dei suoi rapporti con le persone che la circondano. Scopriamo così le sue lunghe giornate trascorse in solitudine, la sua difficoltà di spiegare ai coetanei che quella è la sua realtà. Ma soprattutto incontriamo una vita che si sviluppa e matura in un contesto diverso dal solito, fra carrozzelle e tossici iniziati alla disintossicazione, in una famiglia nella quale spesso i membri vanno via per non tornare più, perduti o recuperati, restituendo l’adolescente al suo stato di solitudine.
Chi resta deve capire è un romanzo quasi elementare, che prende in prestito il linguaggio della giovanissima protagonista e non ha molto da offrire sul piano linguistico. Ma è anche una testimonianza importante, che non può non incuriosire mano a mano che si scoprono le dinamiche di questa comunità calabrese, e dà l’impressione di vedere il grande refettorio durante l’ora dei pasti, il furgone con cui si fa la spesa, quell’Alfredo sulla sedia a rotelle che appare alla ragazzina come una sorta di grande saggio, gli sforzi del prete, le difficoltà dei tossicodipendenti. Peccato che di calabrese, in effetti, ci sia molto poco. Pare più uno sguardo su una realtà universale e passata, quando ancora i cellulari non c’erano e l’isolamento poteva essere effettivo, totalizzante, e il silenzio rimaneva silenzio. Soprattutto, con tutti i limiti del caso, è palese che molte esperienze narrate siano frutto dell’esperienza vissuta davvero dall’autrice che, per questo, conclude la narrazione senza mai peccare di irrealismo.
(Cristina Lio, Chi resta deve capire, E/O, 2013, pp. 192, euro 16)
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