“Inseguendo un’ombra” di Andrea Camilleri
di Mario Massimo / 2 aprile 2014
Come non sentire paradossale – di una girgentina-pirandelliana paradossalità – la definizione che Andrea Camilleri dà di questa sua ultima fatica, Inseguendo un'ombra (Sellerio, 2014), «il romanzo storico che non scriverò»? Non è forse, il libro, davanti ai nostri occhi? E che altro sono, le vicende in esso narrate, se non romanzesche della più bell’acqua? Anzi, a dirla tutta, per più di un episodio decisamente tangenziale con gli ammazzamenti sotto il sole spietato della Sicilia (l’uccisione a pietrate dell’uomo sceso a predare il tesoretto del protagonista nel fondo di un pozzo; la morte, sotto i ferri degli inquisitori, del suo amico-mignon deciso a non denunciarlo; l’altra uccisione, più avanti nella storia, a colpi di candelabro, di un usuraio ebreo, con conseguente fuga da Roma del sempre più braccato protagonista; o ancora, il furto d'inestimabili volumi dalla biblioteca del suo allievo Pico della Mirandola, con tutti i contorti maneggi di quest’ultimo per recuperarli) cui ci hanno abituato le applaudite esibizioni televisive del commissario dalla stellante pelata.
Eppure, no: Camilleri gioca a carte scoperte, limpidamente. Questo, che in effetti ha poi scritto, sarà magari un romanzo, ma difficilmente gli vedremmo applicata la definizione di “storico”; almeno, non nell'accezione, diremo così manzoniana, della maggiore approssimazione possibile al «vero storico». Se si esclude, infatti, il remoto antenato della ben più famigerata stella gialla hitleriana, la rotella rossa coercitivamente cucita sull'abito agli ebrei di Sicilia, praticamente nulla ci viene precisato (incommensurabile vantaggio che la letteratura ha sulla narrazione per immagini!) in merito a usanze, oggetti d'uso, fogge del vestiario e qualsiasi altra cosa servirebbe a caratterizzare un’epoca così remota dalla nostra, i decenni centrali e, via via, finali del Quattrocento (l’ultima, indiretta menzione documentale del protagonista sono i tarenos duos, i due tarì che gli lascia il testamento di sua madre, l’anno prima che Colombo vada a incocciare nell’America). E, del resto, Camilleri aveva messo subito avanti le mani: non vuole in alcun modo «rifare lo stesso percorso di ricerca storica di coloro che m'avevano preceduto, certamente più esperti di me», e insomma i due o tre saggi storici esistenti sopra quell’ebreo siciliano del Quattrocento dalla tumultuosa e insieme oscura esistenza, sono «tutto quello che c’era da leggere nelle antiche carte».
Eccola, allora, la via d’uscita, additata già, all’autore, nel lontano 1980 da una seduttiva pagina di prosa di Leonardo Sciascia, da cui anche viene il non meno seduttivo titolo: il segreto incrocio – proprio come nel romanzo di Camilleri immediatamente precedente – di umana sofferenza, adombrato in due parole arabe, naar, il ragazzo (di cui il protagonista petulantemente reclama da Pico della Mirandola la contrattuale fornitura), e rumh, la lancia, – Sciascia spiega – «metafora erotica allora frequente»; per finire alle glosse che l’uomo di triplice identità segnò in margine alle traduzioni dalla qabbaláh fatte per Pico con metodo capriccioso anzicché no, giacché «contrariamente all'opinione comune, egli ritiene» che questa sua «non sia una scienza, ma un’arte. Alla stessa stregua della pittura o della poesia che traggono materia dalla realtà per riproporla modificata». E infatti in queste note, accanto a schizzi al vetriolo sulla Babilonia, anche sessuale, della corte romana, ecco affiorare l’assillo centrale dell'esistenza di quest’uomo, «l’unico autentico affetto, o amore se volete», che egli abbia provato «verso un'altra persona appartenente al genere umano», il bellissimo adolescente di nome Lancillotto che, duplicando (Camilleri, tuttavia, non lo nota) la quasi coeva figura del Salaì di Leonardo da Vinci, inchioderà il rinnegato ebreo Samuel-Raimondo-Mitridate alla croce di un dolente succedersi di fughe e ritorni e nuove sparizioni nel nulla. Lo stesso nulla in cui finisce per dileguarsi – omicida, ladro, polemista antiebraico, spergiuro: tutto con una cristallina, veramente rinascimentale assenza di scrupoli morali –, una volta entrato nel carcere a Viterbo, il protagonista. Il che consente a Camilleri il coup de théâtre delle tre diverse conclusioni alternative che, in saporosa successione di eventualità, ci vengono suggerite a fine romanzo, e prima che l’ultima pagina arrivi a proporci l'assolutamente improbabile reincarnarsi di quel nome, Raimondo Moncada, nel «famoso mago che al solo tatto della mano riesce a scoprire i problemi e a dare giuste soluzioni, felicità e fortuna», come da allegato ritaglio del Messaggero: ultimo (sulfureo e comico a un tempo) guizzo di questa di cui Camilleri fa ciò che, forse, tutti noi siamo, in letteratura o altrove: una “immagine”, un'inafferrabile ombra.
(Andrea Camilleri, Inseguendo un’ombra, Sellerio, 2014, pp. 256, euro 14)
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