“Se vivessimo in un paese normale” di Juan Pablo Villalobos
di Giulia Zavagna / 16 aprile 2014
Juan Pablo Villalobos torna in libreria con il suo secondo romanzo, Se vivessimo in un paese normale, di recente pubblicato da gran vía edizioni.
Dopo l’esordio con Il bambino che collezionava parole (Einaudi, 2012), Villalobos sembra cercare un nuovo linguaggio per raccontare il Messico. Dalla struggente voce Tochtli, che raccontava il dramma del narcotraffico dall’interno, con l’inconsapevole innocenza di ogni bambino, passiamo al caustico punto di vista di Oreste, detto Oreo (sì, come i biscotti), ragazzino di tredici anni condannato a essere il secondogenito di sette fratelli.
La vicenda si svolge a «Lagos de Moreno, Altos de Jalisco, regione che per sua maggior disgrazia si trova in Messico», negli anni Ottanta, nel periodo immediatamente precedente all’elezione del neoliberista Carlos Salinas. Il Colle di Merda, in cima al quale è situata la catapecchia formato scatola da scarpe dove Oreste vive con la sua numerosa famiglia, sembra l’ultimo avamposto alla periferia del mondo: «Per chi non è mai stato da queste parti, lasciatemi dire una volta per tutte quattro cose sul mio paese: ci sono più mucche che persone, più charros che cavalli, più preti che mucche e alla gente piace credere all’esistenza di fantasmi, miracoli, navicelle spaziali, santi e roba simile». In un abile gioco di rimandi, l’intero romanzo è racchiuso in questa breve citazione.
Dopo l’ennesima frode elettorale, il paese si ritrova paralizzato dalla rivolta, e mentre la famiglia studia un arguto piano d’azione per fare provviste e barricarsi poi in casa, i due fratelli più piccoli di Oreo, finti gemelli, scompaiono. È allora che, senza troppa convinzione, Oreste parte con il fratello maggiore alla ricerca dei piccoli, dando inizio a una rocambolesca avventura che ben presto lo vedrà affrontare da solo le avversità della vita per strada e l’incontro dei personaggi più assurdi. In una dimensione in cui la qualità della vita si misura in quesadillas, o meglio, nella quantità di formaggio fuso che contengono, Oreste si muove come un novello Holden Caufield tutto messicano e, come vuole il mito inscritto nel suo nome, tornerà poi a casa per prendere parte a un finale decisamente esilarante.
La struttura sulla quale Villalobos edifica le proprie narrazioni è solida, e prende corpo nel linguaggio: se il piccolo protagonista del Bambino che collezionava parole filtrava gli eventi che lo circondavano sulla base di cinque complessi aggettivi, e tutti i personaggi erano accomunati da nomi preispanici, dal sapore antico, in questo caso il procedimento è simile: il romanzo, dai tratti per lo più surrealistici e deliranti, prende le forme di una tragedia greca, e l’autore lo esplicita, attribuendo a ogni personaggio un buffo nome che è insieme la sua forza e la sua rovina: «Mio padre ci presentò, pronunciando con orgoglio i nostri favolosi nomi greci: Aristotele, Oreste, Archiloco, Callimaco ed Elettra. Più che una famiglia, sembrava l’indice di un’enciclopedia». E come dimenticare, poi, i due finti gemelli perduti: Castore e Polluce?
Pur con qualche eccesso, con un linguaggio diretto e un tono smaliziato e ironico Villalobos riesce a inserire nella narrazione, senza stonare, anche le trovate più eccentriche – dalla notevole professione dell’inseminatore di mucche all’apparizione di extraterrestri –, creando il ritratto surreale di un paese che la letteratura ci insegna essere sempre più difficile da mostrare. Dopo La Piramide di Juan Villoro, gran vía ci propone un’altra brillante interpretazione del Messico contemporaneo.
(Juan Pablo Villalobos, Se vivessimo in un paese normale, trad. di Stefania Marinoni, gran vía, 2014, pp. 128, euro 13)
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