“Grace di Monaco” di Olivier Dahan
di Francesco Vannutelli / 15 maggio 2014
Ha inaugurato la sessantasettesima edizione del Festival de Cannes Grace di Monaco di Olivier Dahan, film biografico sugli anni chiave della vita di Grace Kelly, diventata Grace di Monaco dopo il matrimonio con Ranieri Grimaldi, sovrano del piccolo principato, tra tentazioni hitchcockiane di ritorno a Hollywood e ragion di stato e di famiglia.
Siamo nel 1962, sono passati ormai sei anni dal matrimonio del secolo. Grace ha il titolo di principessa ma ancora non si è abituata al protocollo e al ruolo. Preferisce comportarsi come le viene naturale, da donna libera, americana in un mondo vetero-europeo. A Grimaldi piace per questo, finché però la crisi internazionale (la minaccia francese di annessione per far cassa di fronte alla costosa guerra algerina) non autorizza il rimpianto di una consorte più tradizionale, pronta a porsi al suo fianco anziché lasciarsi sedurre dall’idea del ritorno sul set per interpretare una ladra frigida nel Marnie che l’amico Hitchcock sta progettando. Grace si trova quindi a dover scegliere, per la prima volta dubbiosa, tra rimanere con i figli al fianco di un marito assente e risucchiato dall’impegno di governo o fare ritorno oltreoceano, dove un mondo più noto e più suo la aspetta.
Quando tocchi un’icona è inevitabile andare in contro a polemiche, o quanto meno a perplessità. Quando l’icona è regale il rischio aumenta. Grace di Monaco è stato contestato e ripudiato dalla Casa Grimaldi quando era ancora solo un’idea. Si è dovuti ricorrere all’espiediente del chiarimento iniziale – “storia di finzione ispirata a fatti reali” – per evitare ulteriori e spiacevoli conseguenze.
Il senso del film è nella citazione iniziale della vera Grace Kelly, su sfondo nero: «La vera favola è credere che la mia vita sia una favola». Per il regista Oliver Dahan e lo sceneggiatore Arash Amel la vita di Grace ebbe molto poco di favolistico, almeno nei suoi primi anni monegaschi. L’isolamento di una donna straniera in un mondo di convenzioni, senza amici se non un prete statunitense e un marito distante sempre preso dal lavoro inquadrano subito Grace come “principessa triste”, in una immedesimazione a ritroso con la più celebre sovrana infelice Lady Diana. Solo Maria Callas la capisce, anche lei libera e restia a lasciarsi sottomettere dall’uomo Onassis che ha attraccato lo yacht a Montecarlo ed è rimasto a consigliare Ranieri.
La tristezza di Grace, però, non è solo esistenziale. C’è una dimensione politica più alta che coinvolge l’Europa e la spinge vicino a Ranieri, tra congiure di palazzo e pressioni internazionali.
Incerto tra la vita pubblica e il tormento privato, Dahan sceglie una via di mezzo che sviluppa approssimativamente le direzioni dell’indagine. Da principale nemica, per dire, la funzionaria di corte Madge diventa la migliore delle alleate, da infelice e anelante il ritorno a Hollywood al riparo sul set di Hitchcock, Grace diventa la principessa per eccellenza, mondana, cordiale, vicina al suo uomo e attenta a tutto. Non ci si accorge del momento delle trasformazioni semplicemente perché non vengono mostrate. A Grace bastano pochi minuti di colloquio col prete Tuck per abortire il sogno di mantenere la sua identità e concepire l’idea di interpretare definitivamente il ruolo di Grace di Monaco, un tempo nota come Grace Kelly. Segue rassegna stereotipata del difficile percorso per diventare signora di corte (ma parliamo comunque di un’attrice da sempre celebrata per l’algida eleganza, ghiaccio bollente, per dirla con Hitchcock, e va bene che ha vinto l’Oscar facendo La ragazza di campagna, ma non è che fosse proprio una donnetta, di base) e la trasformazione in perfetta sovrana che stupisce ancor più degli strappi al protocollo.
È difficile ipotizzare che sia bastato un discorso al ballo della Croce Rossa per risolvere una tensione internazionale protratta per mesi. Dahan ce lo vuole far credere contando esclusivamente sul carisma della sua Grace, Nicole Kidman, alle cui lacrime, ancor più che alle parole, lascia il compito di convincere almeno lo spettatore, se non De Gaulle, della possibile bellezza della bontà.
Tra melodramma e congiura, guardando a Hitchcock, che quando appare interpretato da Roger Ashton-Griffiths fa respirare, e al destino finale della principessa (la corsa in macchina sulla litoranea, tra Caccia al ladro e l’incidente dell’82), Grace di Monaco indossa un abito impeccabile ma la temperatura del ghiaccio non raggiunge l’ossimoro del bollore. Gli era andata meglio, a Dahan, con Edith Piaf e La vie en rose.
(Grace di Monaco, di Olivier Dahan, 2014, biografico, 103’)
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