“Né potere né gloria” di Ferruccio Parazzoli
di Mario Massimo / 5 giugno 2014
È ancora possibile trarre una narrazione dai Vangeli? Rimontare, cioè, secondo i dettami smaliziati della narratività letteraria, o magari anche filmica, i tasselli di quel mosaico che sicuramente risalgono a una qualche forma di testimonianza (la cosiddetta «fonte Q» degli specialisti) ma vennero poi fissandosi in una sequenza cui l’incondizionata fiducia assicurata dalla fede di coloro che quei testi ascoltavano, più che leggerli, toglieva ogni preoccupazione di rendersi razionalmente, documentalmente credibile; un’operazione del genere, ha dunque – si diceva all’inizio – ancora un senso, dopo tutte le volte in cui la si è attuata?
La risposta è: sì, probabilmente. Quanto meno, è la risposta che Ferruccio Parazzoli dà con questo Né potere né gloria (Rizzoli, 2014); e non sarà sfuggito a prima vista il voluto ricalcarsi del titolo su quello, celeberrimo, di Graham Greene, a cui del resto lo accomuna la scelta di trattare narrativamente temi di un Cristianesimo certo non supino, ma intinto di una sua umile quanto raziocinante ortodossia.
Anche il traliccio scelto da Parazzoli per rimontarvi sopra quei tasselli non è, a rigor di termini, del tutto originale: quello dell’inchiesta che qualcuno, nei giorni o negli anni immediatamente successivi alla crocifissione del Nazareno, compie fra i sopravvissuti, cercando di arrivare a una qualche identificazione meno sfuggente del profeta finito sulla croce come un rivoluzionario di strada. Ciò che Parazzoli, però, vi mette di originale, è la scelta del suo detective fra i colleghi, per così dire: stavolta si tratta di uno storico romano, non di quelli di prima grandezza (e qui sembra di cogliere un’arguta confessione di umiltà evangelica, nell’autore), quel Valerio Massimo che molti di quanti hanno attraversato studi liceali ricorderanno, forse, con la gratitudine dovuta a chi non conduce il latino alle astrali difficoltà di un Tacito, o un Ammiano Marcellino.
L’autore dei Fatti e detti memorabili è certo perfettamente compatibile con le vicende, in quanto visse appunto sotto Tiberio; frutto, invece, della libera invenzione di Parazzoli (o quanto meno mai esplicitamente documentato!) è che si sia trovato a Gerusalemme, e proprio negli stessi giorni in cui l’oscuro condannato ebreo veniva inchiodato alla croce accanto ad altri due lestài, cioè “briganti di strada” (ma il termine copre, nel lessico del tempo, anche l’accezione più specificamente politica di “terrorista”).
È proprio l’improvviso impulso di pietà («quel rosichio, che non so con quale nome chiamare, che mi era entrato dentro») che Valerio prova alla vista di quel corpo martoriato – desciliato, avrebbe detto Jacopone da Todi – dal tremendo arnese di tortura, a innescare in lui il bisogno di sapere: «Pace a te, crocefisso»– dissi. – «Vado a capire perché ti è successo questo».
Incomincia così il viaggio di Valerio in cerca di tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di incontrare Yehoshua: magari solo per i pochi minuti necessari a essere da lui risanati dalla lebbra, o dalla cecità, quando non dalla morte stessa com’è per Lazzaro, o lo schiavo del Centurione – ma qui Parazzoli, con sottile intuizione psicologica, immagina che lo schiavo ne sia, in realtà, il figlio illegittimo, e che la professione d’indegnità di costui di accogliere il rabbì sotto il proprio tetto celi il suo imbarazzo verso la moglie – o la figlia di Giairo, chiamata da Parazzoli letterariamente Taide, forse per assonanza con Thalita presente in Marco. Nel viaggio, in funzione d’interprete, nonché di picaresco procacciatore di cavalcature, pranzi o alloggi di fortuna, accompagna lo scrittore romano un ragazzo, che Parazzoli identifica nel misterioso giovinetto, citato dal solo Marco, che «lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» nella notte del Getsemani: Parazzoli ne fa un drop-out ebraico, servo di Pilato «dall’aria sveglia, per nulla ossequiente» e simpaticamente briccone, cui dà il nome, per altro italianissimo, di Iosef.
Ebbene, ciò a cui andrà incontro lo storico – a parte anche i briganti da cui viene assalito nel sonno e derubato, o gli ignoti che gli penetrano in casa per sottrargli i preziosi rotoli di appunti sull’indagine – è una sconfortante esperienza di frustrazione: praticamente nessuno ricorda le parole di Yehoshua, molti non le hanno nemmeno mai capite; chi è stato sanato da lui quasi sempre risponde agli approcci dell’inquisitore romano in maniera ruvida, scostante, frammentaria; fino alla dolorante umanità della moglie di Cefas, lasciata sola e con una figlia paralitica, dal fondatore della Chiesa universale in preda alla sua delirante, egoistica infatuazione. Tutti, tranne Maria Maddalena che, com’era facile aspettarsi, alimenta in sé la fiamma di un amore che le ha fatto “vedere” vivo fuori dal sepolcro l’uomo a cui aveva unto di balsamo i piedi impolverati, e – pagina di una delicatezza di tocco finissima – Maria madre di Gesù, le cui indecifrate parole si chiudono nell’unico possibile senso: «Io sono la porta».
E certo Prazzoli non è così ingenuo da far “convertire” il suo storico-detective alla fine del defatigante itinerario, ma gli fa confessare: «Non posso nascondermi che ho finito per amarlo, quel piccolo Yehoshua che ha gettato via la sua vita per tutti coloro che lo hanno già dimenticato», e la clausola finale: «Preferisco un fallito a un vincitore» è, sicuramente, molto più di una risposta ai chiassosi slogan della pubblicità o (il che rischia di essere lo stesso, ormai) della politica.
(Ferruccio Parazzoli, Né potere né gloria, Rizzoli, 2014, pp. 238, euro 16)
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