“Il taccuino di Bento” di John Berger

di / 8 luglio 2014

La passione per il disegno, l’impulso ad accarezzare o aggredire il foglio bianco per dare forma con linee e colori al nostro sguardo sul mondo. Passione molto comune e impulso che tutti noi, prima o poi, abbiamo sentito quasi irrefrenabile. Ma forse non tutti sanno che anche il grande filosofo olandese Baruch Spinoza, detto Bento, disegnava. Infatti pare che, oltre a tornire lenti per guadagnarsi da vivere e a scrivere opere che hanno segnato profondamente la storia della filosofia moderna, amasse anche affidare a un taccuino, mai ritrovato, la sua personale visione delle cose.

Il taccuino di Bento (Neri Pozza, 2014) è un raffinato libro di disegni e sul disegno scritto da un altro cultore appassionato, il critico d’arte e giornalista inglese John Berger. La fonte di ispirazione è proprio quel misterioso quaderno così caro a Spinoza, un’autentica molla per l’immaginazione dell’autore. Così, lungo le pagine si susseguono svariate riflessioni sull’arte del disegno e sull’atto di guardare che si intrecciano ad aneddoti e brevi racconti di esperienze quotidiane, squassate dalle contraddizioni della contemporaneità. Questo flusso di impressioni di inchiostro e colori è scandito dalle parole di Spinoza, in particolare da citazioni tratte dall’Etica e dal Trattato sulla emendazione dell’intelletto. Un dialogo in cui la ricerca espressiva si unisce a quella filosofica e lo sguardo diventa la via privilegiata per addentrarsi nel mistero delle cose: «con il passare del tempo […] noi due – Bento e io – siamo sempre meno distinguibili. Nell’atto di guardare, di interrogare con gli occhi, siamo diventati quasi intercambiabili. Deve essere perché entrambi sappiamo dove e a cosa può condurre la pratica del disegno».

In senso lato, il libro di Berger è un libro filosofico, non solo perché si avvale dei pensieri di Spinoza, ma anche perché è un libro di ricerca: quella, paziente e silenziosa, del disegnatore, volta ad assorbire frammenti di realtà, accumulare dettagli, miscelare linee e colori, capace di fare i conti con limiti ed errori finché non giunge a dare forma a un’immagine sul foglio. Un procedimento incerto, imprevedibile e capriccioso, con dentro qualcosa di maieutico: in fondo, «noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione». Non solo, quella dell’autore è anche una ricerca morale, che si confronta con le varie forme di umanità che incontra riportandone la testimonianza, talvolta drammatica, con un tono amichevole e confidenziale: proprio come un disegno dal vero, sincero e imperfetto, senza tanti trucchi retorici.

In definitiva, quello che ci offre John Berger è un modo di interrogare con gli occhi e con le parole che non si accontenta di schemi preconfezionati e non rifiuta il disordine delle cose, accettando invece la continua sfida posta dal foglio bianco. In questo modo, la tecnica del disegno sembra estendersi anche alla scrittura: quella di Berger è infatti una prosa ragionata, certo, ma possiede quella stessa immediatezza, leggerezza e spontaneità che caratterizzano i suoi disegni.

(John Berger, Il taccuino di Bento, trad. di M. Nadotti, Neri Pozza, 2014, pp. 176, euro 20)

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