“Una canzone che ti strappa il cuore” di Joseph O’Connor
di Francesco Leonelli / 16 novembre 2010
Non conoscevo minimamente Joseph O’Connor, l’autore di Una Canzone che ti strappa il cuore (Guanda,2010), ma già dal cognome di origine gaelica intuivo che nel suo romanzo si parlasse d’Irlanda. In questo –si parva licet componere magnis– O’Connor ricorda il Joyce dell’Ulisse e la sua ossessione per le radici irlandesi e per il tema dello sradicamento di un popolo orgoglioso la cui autocoscienza storica è estremamente pericolante. Anche i personaggi di O’Connor, benché sradicati e reimpiantati in altre terre, sentono nel sangue urlare, biblicamente, tutto l’orgoglio e le maledizioni di quella patria che non riescono a dimenticare.
La protagonista del romanzo, l’attrice di teatro Maire O’ Neill, nome d’arte di Molly Algood ( il nome Molly suona come un omaggio alla Molly Bloom dell’Ulisse), è una donna che per un attimo ha carezzato il sogno di un non omnis moriar, poi svaporato con il veloce consumarsi della sua giovinezza. Una povera vecchia completamente sola e distrutta dall’alcool è tutto ciò che rimane di quella donna, sprofondata nei ricordi che affiorano lungo il corso di un lutulento e inarrestabile “flusso di coscienza” destinato a concludersi inesorabilmente nell’oblio della morte.
L’Irlanda in cui si svolge la giovinezza della protagonista è un leitmotiv che ricorre continuamente; è l’edificio diroccato su cui si abbarbicano i ricordi di un’infanzia trascorsa nella povertà e nell’oppressione di un invadente e ossessivo credo cattolico, cui segue l’emancipazione di Molly e la sua trasformazione in Maire O’ Neill, la grande attrice che dominerà le scene dei teatri di due continenti. Ma tutto dura tragicamente poco, e ben presto Molly/Maire è costretta a tornare nel bossolo del suo anonimato, nel quale si consuma ciò che resta della sua vita. A pensarci, questo destino è comune ai più; solo chi lascia un segno del suo passaggio tramite l’immortalità delle sue opere resiste in qualche modo alla piena dei ricambi generazionali; questo privilegio è però arduo a ottenersi, e in verità, un ben magro compenso a una vita di affanni. Ma è pur sempre qualcosa: poter sapere che il tuo ricordo non sarà appeso a una stinta fotografia o a tratti somatici che ricorreranno nelle stirpi, ma che il referto delle tue passioni e delle tue sofferenze terrene saranno nutrimento per gli uomini che seguiranno.
La Maire/Molly ha avuto le sue glorie, i suoi amori, i suoi lutti e le sue disgrazie ed è oramai un baccello senza più semi, superflua persino a se stessa: già è tanto che qualcuno ricordi le sue antiche fortune consegnate a libretti teatrali ingialliti e trovati tra mercatini di ciarpame vario. La morte arriverà quasi come una liberazione.
L’edizione originale del libro è intitolata Ghost Light, un titolo molto significativo, purtroppo occultato nell’edizione italiana. La “luce fantasma” è quel lumicino lasciato acceso per superstizione nei teatri a termine delle prove perché anche i fantasmi possano recitare. Questa luce potrebbe essere l’emblema della piccola esistenza di Maire/Molly, o meglio, della sua testimonianza, della sua ultima recitazione fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
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