“La città d’Adamo” di Giorgio Nisini
di Matteo Chiavarone / 7 marzo 2011
Che Giorgio Nisini fosse una delle più interessanti voci della narrativa italiana si era capito sin da La demolizione del Mammut (Perrone, 2008), “grande tragica metafora di ciò che ogni uomo vorrebbe abbattere”, ma che trovasse sin nel secondo romanzo, La città di Adamo (Fazi, 2011), quella capacità di attrarre a se il lettore come solo i grandi scrittori sanno fare è forse una sorpresa.
Dico “forse” perché la casa editrice Fazi, credendo moltissimo in questo libro, probabilmente l’ha capito subito. E come dargli torto, d’altronde?
La storia, apparentemente “semplice”, è quella di un imprenditore di successo che ha ereditato l’azienda un padre che l’ha trasformata in una delle più importanti d’Italia.
Da un evento casuale – un’immagine di se stesso bambino in compagnia del padre andato in onda in un filmato di molti anni prima e trasmesso in televisione per un’inchiesta sulla camorra – inizia un viaggio interiore che dovrà portare risposte a domande fino ad allora mai formulate.
Teatro della storia quell’Alto Lazio che Nisini, viterbese DOC, conosce alla perfezione. Ma nel gioco dei rimandi (luoghi reali e luoghi immaginari) il protagonista attraversa la spina dorsale italiana portandoci dalla Toscana (intravista in una fotografia d’epoca) alla Campania, facendoci “perdere” nella “città d’Adamo”, risposta meridionale al razionalismo fascistoide della Roma anni trenta.
Il quartiere-città Eurano, novella Gomorra dal sapore pittorico di un De Chirico, specchio “cilindrico” e “sporco” della perfezione “rettangolare” dell’EUR (quartiere capitolino fortemente voluto da Mussolini), diventa il luogo del “segreto”.
Per un gioco del destino questa paura ha un nome e un cognome: Adamo Pastorelli, un potente boss degli anni settanta. Eurano è ricordata, agli occhi del bambino, come la sua città.
La vita – fino ad allora felice e persino “ovattata” – subisce un trauma imprevisto. Ricchezza, benessere, tranquillità si macchiano improvvisamente di una “possibile” onta.
La ricerca “a testa bassa” decisa dal protagonista svia dalla realtà del presente. Guardando ossessivamente dietro si rischia di perdere quel che di buono si ha di fronte.
Come in ogni percorso ci sono le interruzioni. Quelle volute, quelle necessarie e quelle improvvise. Sta al protagonista comprendere e sapersi fermare.
Anche la quotidianità per ritrovare il corso naturale ha bisogno di tempo e di risposte. Quelle che ci propone lo scrittore e quelle che vogliamo trovare da soli.
Il romanzo scorre vie velocissimo, proiettando qua e la felici intuizioni (come il gioco sensuale tra l’uomo e la bella moglie, donna di successo e di “stile”) e senza “vestirsi” di reportage sulla malavita organizzata.
La camorra è solo metafora del male, del non-giusto, del non-corretto. Una storia “biografica che non è autobiografica”, un consapevole viaggio in cui, per una volta, è più importante la partenza che l’arrivo.
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