“Che ne dici di baciarci?” di Rayk Wieland
di Cristiana Saporito / 10 agosto 2012
Il signor W. non completa il suo cognome. Non riesce a chiamarsi per intero. Resta una sigla, una di quelle scritte in rosso, appuntate su fogli che scottano, quelle che possono celare selve e frattaglie, vasellami di peccati, discariche di vizi non differenziati. Quella sola iniziale è un pericolo assoluto, è capace di abbreviare qualsiasi sciagura. Perciò va monitorata, con urgenza e continuità. Soprattutto quando bisogna mantenere l’ordine, dopo averlo innescato a fatica. Il potere non va solo ottenuto, per quello a volte basta un colpo di fortuna. L’arduo è mantenerlo, come un’eccellenza, un matrimonio che non si screpola a distanza di anni e di pelle più fresca.
Siamo nel cuore affannato della DDR, quello spicchio di Germania all’ombra della Russia, un perimetro severo e molto geloso del suo rigore. Un perimetro che ha tanta paura sotto i cappotti, perché sa che le rinunce prima o poi busseranno tutte insieme, che la gente potrebbe infilare troppi sogni nelle tasche e potrebbe stancarsi di non scoprirli mai.
Questo è il contesto in cui si svolge la storia di Che ne dici di baciarci?, primo romanzo di Rayk Wieland, pubblicato dalla piccola e pregiata Keller. Il nostro protagonista è un uomo qualunque, un ex ventenne conficcato nel petto di Berlino est, che nel 2009 viene contattato da un’associazione in difesa degli autori perseguitati dalla Stasi e invitato a intervenire in un convegno. Viene dunque a sapere di essere stato un poeta. Non solo, un poeta strettamente sorvegliato, come i treni di Bohumil Hrabal.
Per tutta la durata di quella favola ideologica, polverosa e malinconica, cordigliere di burocrati e funzionari hanno intercettato le sue lettere, i versi innocenti indirizzati alla sua amata Liane, che aveva la colpa di essere bella e soprattutto di essere lontana, di abitare nella Monaco disinvolta e occidentale. Sono rime sdentate, senza unghie né intenzioni, se non quelle di cucire quei chilometri e di portarla accanto a lui. Non voleva compiere attentati, l’unico equilibrio da destabilizzare era il battito della sua donna. Eppure, annotare che «non c’è niente di reale nel sistema, mentre il reale si dovrebbe esigere» appare a chi lo spia una minaccia da arginare. W. vuole raggiungere Liane e quando s’incontrano il tempo cola via, svuota i bicchieri di troppi orologi e allora la soluzione è aggiungere un secondo a tutti i minuti. Nasce così il Gruppo 61, volto a manomettere il conteggio delle lancette per rubarsi qualche bacio e interpretato invece dai “controllori” come una cerchia eversiva ad alto tasso destrutturante, ricordando la data in cui il muro fu eretto e in cui la sfiducia cominciò a strisciare.
Tutto il libro ricostruisce salti di vent’anni, la giovinezza di un ragazzo abituato a poco, che frequenta bische clandestine perché basta nascondersi, puntare i giusti circuiti e il reato diventa ammissibile, quasi normale. S’imbatte in ceffi della malavita, che mentre delinquono lo osservano, raccolgono dati e lo raccontano ad altri, perché la delazione diventa un mestiere. E se non c’è niente da riferire, se tutto scorre senza sospetti, può sembrare che non si scruti abbastanza, che non si operi con attenzione. Quindi il dettaglio va cercato, scovato nell’ovvio, inventato se serve. E ogni relazione si trasforma ben presto nel festival del surreale, dove ogni virgola lievita come farina e ogni frase è foriera di rischi. Ancor di più quando chi la compone studia filosofia e quindi ha la sfortuna e il difetto di voler pensare. Perché è il pensiero il primo piccone per ogni frontiera, anche quando vuole solo innamorarsi. Perché è il primo a combattere il limite. O come in questo caso, a prendersene gioco.
Ben diverso dalle tinte sobrie di Uwe Tellkamp, dai documenti di Anna Funder, dalle righe di pioggia di Christa Wolf e dalle atmosfere cupe e strazianti del film di Von Donnesmark Le vite degli altri, Wieland insinua un sorriso nelle terre estreme del grigiore, realizza una parodia panoramica sottile e deliziosa, un ritratto brillante e divertito dei paradossi del regime. Dei mostri fabbricati dal timore di cambiare. Che ancora oggi per esistere non hanno bisogno di mattoni.
(Rayk Wieland, Che ne dici di baciarci?, trad. di Franco Filice, Keller Editore, 2012, pp. 240, euro 14,50)
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