“Sick City”: a tu per tu con Tony O’Neill

di / 6 aprile 2013

Leggere Tony O’Neill, equivale a entrare in un mondo. Un mondo che in Sick City (Playground, 2012, traduzione di Gaja Cenciarelli) esplode in tutti i suoi violenti colori e aspetti. Una città – Los Angeles – simile a un grande palcoscenico umano, dove i più efferati vizi e peccati si stagliano sull’ipocrisia e la falsità di un’America più corrotta e tossica dei protagonisti del romanzo. È talmente ampio e profondo lo scenario di Sick City, che l’unico modo per attraversarlo come meritava, era proprio tramite il suo autore. Cordiale e appassionato nel risponderci, O’Neill domanda su domanda, ci illustra le sfaccettature del bellissimo romanzo. Più che un’intervista, un invito a passare per Sick City.


Tony, da ex-musicista, quale sarebbe la canzone che farebbe da perfetta colonna sonora al romanzo?

Il titolo stesso del libro è stato in realtà ispirato da una canzone dei Primal Scream, “City” (dall’album Evil heat). Dal punto di vista del testo, e anche musicalmente, è la colonna sonora perfetta per la storia: «Sick Sick Sick City / Gonna be the death of me!»
In generale, la musica mi ispira molto. Un’altra canzone che ho ascoltato spesso nel periodo in cui stavo scrivendo il libro è la versione di Tom Waits di “Somewhere”, il motivo di West Side Story. Potrei dire che quella canzone riassume in qualche modo ciò che sento per Randal e Jeffrey – che sono due anime smarrite forzate ad adattarsi a un mondo che è semplicemente troppo retto per loro.


Secondo te, quale autore ha colto meglio di tutti l’anima di Los Angeles, la città che è quasi un personaggio reale in Sick City?

Per me Charles Bukowski sarà sempre il poeta laureato di Los Angeles. Il fatto è che LA è una città del tutto schizofrenica. Beverly Hills potrebbe tranquillamente esistere in un universo diverso da Westlake o da East LA. Ma la Los Angeles che conosco io, la sporca, sudicia città che esiste alla sordida ombra di Hollywood – ecco quella Charles Bukowski l’ha raccontata meglio di chiunque altro. Uno scrittore contemporaneo che riesce a evocare altrettanto bene l’anima sporca di LA è Dan Fante. Proprio come suo padre John aveva colto appieno la Los Angeles degli anni Trenta in Chiedi alla polvere, Dan ha scritto alcuni dei romanzi definitivi sulla Los Angeles contemporanea.


Sick City tra i tre romanzi, è quello meno autobiografico: c’è comunque un’esperienza realmente vissuta che ti ha spronato nella stesura?

Certo. Tutto ciò che scrivo, in un modo o nell’altro, è autobiografico. Scrivere è per me un modo di esorcizzare, un tentativo di dare un senso non solo al mondo in cui vivo ma anche all’oscurità che mi invade. Ci sono frammenti autobiografici nascosti in tutto il romanzo – luoghi, personaggi, situazioni reali. Li ho semplicemente inseriti in una narrazione di più ampio respiro, differente dai miei due romanzi precedenti, Digging the Vein e Down and Out on Murder Mile, che erano praticamente dei memoir. Un personaggio come Pat, per esempio, è basato su diversi spacciatori che ho conosciuto. Allo stesso modo, gran parte dell’azione che si svolge nella clinica di riabilitazione è basata sul periodo che io stesso vi ho trascorso, per disintossicarmi, negli ultimi anni Novanta.


Pensi che temi come la dipendenza dalle droghe, la riabilitazione e l’omosessualità siano ancora dei tabù nella società di oggi? Trattarli in maniera così esplicita e realistica come nel tuo stile, è anche un modo per cambiare eventualmente le cose?

Lo spero. Credo in realtà che negli ultimi anni problematiche come quella della dipendenza e della disintossicazione siano ormai diventate mainstream, specialmente qui in America. Eppure il maledetto Puritanesimo continua a essere al centro della questione. Per me è stata una scelta quasi politica quella di costruire due protagonisti che fossero due tossici senza speranza e che coincidessero comunque con il centro morale del libro. Volevo che le persone, anche coloro che non fanno uso di droga, facessero il tifo per loro. Troppo spesso la dipendenza è trattata come una questione morale, quando in realtà dovrebbe essere semplicemente un fatto medico. Parlando personalmente, credo che le droghe dovrebbero essere legalizzate, a tutti i livelli. Lasciamo che le persone adulte prendano le proprie decisioni su quali sostanze assumere. I tossicodipendenti non hanno bisogno della prigione. Hanno bisogno di avere accesso a droghe pulite e abbordabili.


Pagina dopo pagina vengono scattate delle istantanee indelebili sulla città e sui personaggi: ce ne è una di cui sei particolarmente fiero?

È difficile per uno scrittore giudicare a tal punto il proprio lavoro. Ciò di cui sono più orgoglioso è quando qualcuno mi contatta e mi dice che non riusciva a smettere di leggere. Credo questo sia il complimento migliore che si possa fare a uno scrittore. È ciò che io stesso cerco nei libri, e che qualcuno lo dica a me… sì, quella è una sensazione molto speciale.


Se fossi coinvolto in una lite tra Jeffrey e Randal – i due personaggi principali di Sick City –, da che parte staresti?

Sarebbe impossibile prendere le parti di qualcuno. Vedi, Randal e Jeffrey sono semplicemente due parti della mia stessa personalità. Ci sono alcune scene nel libro in cui discutono sul restare puliti, e in un certo qual modo è come ascoltare una lite che avviene nella mia mente ogni giorno della mia vita. Quel tira e molla tra il volersi dare una ripulita una volta per tutte e la consapevolezza che il mondo è un gran casino comunque, con o senza droga. Alcuni aspetti del personaggio di Randal sono ispirati a un mio caro amico, morto davvero troppo presto. Molto della storia di Jeffrey, invece, viene dalle persone che ho conosciuto nel corso degli anni. Ma le loro anime, la loro personalità profonda… gran parte di me rivive in entrambi i personaggi.


Il Dottor Mike è l’emblema dell’ipocrisia e della falsità: c’è un personaggio dell’attuale scena mondiale che te lo ricorda?

Negli Stati Uniti c’è un tizio chiamato Doctor Drew che ha fatto fortuna sfruttando tossicodipendenti e questioni legate alla dipendenza in televisione. Ha un reality show in cui manda in riabilitazione celebrità stordite dalla droga. Ogni volta che qualcuno di famoso muore per cause legate alla droga è sempre il primo sulla scena, a specularci sopra e a cercare di farsi un po’ di pubblicità ancor prima che il cadavere si sia raffreddato. Soggetti come il Dr. Drew mi fanno davvero vomitare. Anche gli spacciatori sfruttano i tossici, ma se non altro gli offrono in cambio qualcosa di tangibile – la droga. I “Dr. Drew” di questo mondo non danno mai nulla in cambio.


Hai avuto dei modelli narrativi a cui hai attinto mentre scrivevi?

Sono uno scrittore puramente autodidatta. Ho scritto il mio primo romanzo perché mi stavo disintossicando dall’eroina e sentivo che se non avessi fatto qualcosa che mi impegnasse la mente sarei diventato pazzo. Quindi ho iniziato a scrivere le memorie della vita da tossico a Los Angeles, e quelle note sono poi diventate il mio primo romanzo. È stata una fortuna aver scoperto di avere talento per la scrittura, e firmare il primo contratto per Digging the Vein. Quella decisione, iniziare a scrivere delle mie esperienze, ha fatto prendere alla mia vita una piega totalmente diversa – e inaspettata. Scrivo provando e sbagliando, vado a tentativi. Sick City è stato un libro fortunato. Mi è uscito molto naturalmente, senza progettarlo. Era semplicemente “giusto”. Altri libri sono stati una tortura da scrivere. Ma anche nel corso della scrittura di Sick City ci sono stati moltissimi momenti in cui sentivo che non l’avrei mai finito, che l’intera impresa era una follia. È una cosa molto difficile scrivere un libro, tanto dal punto di vista fisico che da quello mentale. Non mi riferisco solo alla disciplina di cui c’è bisogno ogni giorno. Se sei uno come me, senti costantemente una vocina in testa che adora dirti che sei un fallito, che tutti odieranno ciò che hai scritto, che sei un semplice scribacchino senza futuro. Ho sentito quella voce dal primo istante in cui ho posato la penna sul foglio. Fortunatamente sono anche testardo e determinato, quindi sono in grado di andare avanti nonostante le urla che sento nel cervello.


Nel romanzo si parla della terribile storia di Sharon Tate: come ti è venuto in mente di calare questa vicenda nella struttura narrativa, e quale è stato il tuo approccio nei confronti di un fatto di cronaca così terribile?

Credo che il caso di Sharon Tate sia emblematico del lato oscuro di Hollywood. Univa celebrità, follia, e quella sorta di infetta oscurità che ribolle costantemente sotto la superficie di Los Angeles. Avevo davvero sentito strane voci riguardo quel nastro porno. Non credevo fosse vero, ma era comunque una storia intrigante. Quando ero alla ricerca di un motivo che facesse da forza gravitazionale attorno alla quale tutti i personaggi dovevano ruotare, mi è sembrata una scelta naturale.


Arrivato in clinica per disintossicarsi, Randal dice: «Cioè, trent’anni da sobrio a me suona come una condanna all’ergastolo». Ti spaventa la possibilità di subire tale condanna?

La dipendenza ha gettato una lunga ombra sulla mia vita, e il percorso che ho scelto – quello per cui non mi astengo dal consumo di alcol o altre droge, ma cerco di rimanere sano e di avere pieno controllo – è difficile. Non mi buco più; evito droghe pesanti come cocaina ed eroina. Ma quando bevo o fumo resto comunque estremamente consapevole del lato oscuro che è in me, e che mi spinge alla dipendenza. Per me la dipendenza non è una malattia. È una questione di esposizione, e con la giusta dose di forza di volontà gli eccessi che ne derivano si possono mettere a freno. Una vita di totale sobrietà mi spaventa almeno quanto una vita piena di quel tipo di disperazione e angoscia che ho provato nel periodo peggiore della mia dipendenza da eroina. Ho scelto io di camminare su questo filo. Ma allo stesso tempo questo tira e molla interiore è fonte di grande ispirazione per me. Senza tutta questa follia e questo dolore, non sarei mai stato in grado di scrivere i libri che ho scritto.

 

Traduzione di Giulia Zavagna.

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