[Oscar 2013] “Django Unchained” di Quentin Tarantino
di Francesco Vannutelli / 17 gennaio 2013
Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012). Letteralmente “Django scatenato”, nel senso di privo di catene, cioè libero. Perché Django è uno schiavo di colore negli Stati Uniti del sud del 1858, due anni prima dello scoppio della guerra di secessione. A liberarlo è il dottor King Schultz, bizzarro dentista tedesco, affettato e formale, che gira su un carretto con un dente basculante come insegna. La sua reale professione è quella di cacciatore di taglie. Acquista la libertà di Django perché ha bisogno che lo porti dai tre fratelli Brittle, ricercati criminali, un tempo aguzzini del neo-liberto, per eliminarli. Finirà per insegnargli il mestiere, diventarne amico e aiutarlo nella sua missione più importante: rintracciare e salvare la moglie Broomhilda, schiava a sua volta a Candyland, enorme piantagione di cotone di monsieur Calvin Candie, possidente francofilo ma non francofono, che sostiene, sulla base di una frenologia rudimentale, che i neri abbiano tre tacche nel cranio che li predispongono all’obbedienza. Acquistare la libertà della donna si rivelerà meno semplice del previsto e Django dovrà scatenarsi anche in senso figurato. Segue lieto fine con cavalcata verso l’orizzonte.
Dopo averci girato intorno per tutta la sua produzione, Tarantino approda finalmente al genere western. Spaghetti western, per la precisione. Lo fa recuperando nome e personaggio da un vecchio film di Sergio Corbucci con Franco Nero e affidandosi alla sicurezza di un impianto narrativo solido e convenzionale (l’eroe che salva la sua bella vendicandosi dei cattivi che la tengono prigioniera) arricchito della tematica razziale, perenne nervo scoperto e peccato originale degli interi Stati Uniti e di Hollywood. La vera forza del film è un cast eccezionale. Il dentista/cacciatore di taglie di Cristoph Waltz, allo stesso tempo rassicurante e inquietante, e Stephen, l’anziano maggiordomo schiavo di Samuel L. Jackson, che ha passato talmente tanto tempo con i padroni bianchi da essere diventato autenticamente razzista, sono personaggi che rimangono impressi. Lo è ancora di più il poderoso Calvin Candie di Leonardo Di Caprio. Bisogna aspettare più di un’ora prima che appaia sullo schermo, ma quando finalmente arriva riempie la scena con un personaggio titanico, misurato e terribile, perennemente in bilico tra la forma e il terrore. Waltz ha ricevuto una nuova nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista e il Golden Globe, dopo il doppio riconoscimento del 2010 per Bastardi senza gloria. L’avrebbe meritata anche Di Caprio, ma l’Academy ha sempre teso a sottovalutare le interpretazioni del protagonista di Titanic.
Niente da eccepire su un film che, nonostante il corposo minutaggio, non si perde in elementi inutili e rimane compatto senza dilungarsi. Non annoia, sicuramente, ma neanche diverte come gli altri film di Tarantino. Perché è questo che si deve evidenziare di Django Unchained: è un film di Tarantino, senza dubbio, ma privo di molti di quegli elementi che hanno fatto grande il cinema di Tarantino. Gli elementi più importanti, come la brillantezza nella scrittura, i dialoghi e le sequenze memorabili (la tanto decantata scena del sangue che spruzza sui campi di cotone è poca cosa), i movimenti di camera eterodossi e spiazzanti, non ci sono o non emergono.
Da Bastardi senza gloria recupera efficacemente il gioco delle parti, il mascheramento dei protagonisti per entrare in contatto con il nemico (come i “bastardi” si travestivano da nazisti, Django e Schultz si presentano a Di Caprio come schiavisti), ma a differenza del film del 2010 qui l’errore che rivela l’inganno, e la successiva miccia che fa esplodere la violenza finale, è debole e affrettato. Forse perché limitato all’interno di un genere, il regista non riesce a spaziare su registri differenti con la consueta abilità, muovendosi poco oltre i margini di un western tradizionale volgendo lo sguardo verso Est, al cinema di Hong Kong, nel sanguinolento finale.
Tolti i consueti punti di forza del cinema di Tarantino, rimane il solito universo di citazioni e strizzate d’occhio al pubblico (dall’uso spregiudicato dello zoom al cameo del regista nella parte di un minatore bifolco) e la violenza di fontane di sangue fatte esplodere a ripetizione. Un po’ poco, tutto sommato.
(Django Unchained, regia di Quentin Tarantino, 2012, western, 165’)
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