“Lo Hobbit” di Peter Jackson
di Francesco Vannutelli / 14 dicembre 2012
Nella quiete della Contea, Lo Hobbit Bilbo Baggins è comodamente seduto nel suo giardino a fumare la pipa quando riceve la visita di Gandalf il Grigio, stregone noto nella terra dei Mezzuomini per i suoi fuochi artificiali che tante feste avevano allietato. Dopo un dialogo di cui Bilbo comprende poco, lo stregone si congeda marchiando la porta di casa Baggins con un segno. La stessa sera, un manipolo di nani capitanato da Thorin Scudodiquercia irrompe in casa di Bilbo attratto dal segnale e inizia a banchettare aspettando il ritorno del mago. Sono arrivati nella Contea per arruolare lo hobbit nella loro missione: partire verso Erebor, la loro antica dimora nelle rocce, e riconquistarla dal terribile drago Smaug.
Siamo sessant’anni prima de La Compagnia dell’Anello, punto di partenza della trilogia de Il Signore degli Anelli. Bilbo è ancora un giovane hobbit sedentario e pigro, restio all’avventura, lontano da quell’inesauribile fucina di storie fantastiche che diventerà in seguito. Siamo all’origine di tutto, al primo film di una nuova trilogia che si sapeva partire da premesse narrative inevitabilmente deboli e inadatte a una dilatazione in tre film. Perché il materiale offerto da Lo Hobbit, primo romanzo di J.R.R. Tolkien del 1937, è infinitamente più debole della complessa trama della successiva trilogia dell’anello. Una favola, poco di più, con una struttura classica di labirinti e draghi, mostri e tesori e un po’ di magia. Niente a che vedere con la dimensione epica de Il Signore degli Anelli, con la complessità di un mondo creato da zero fatto di lingue nuove e un intricato immaginario di storia e mitologia che nel ’37 era solo in fase embrionale. Peter Jackson doveva saperlo bene quando è partito il progetto Lo Hobbit. Perché, mentre per la trilogia dell’anello si è dovuto lavorare, in fase di scrittura, quasi esclusivamente con tagli e limature per alleggerire un intreccio enorme sviluppato in più di 1.200 pagine, il nuovo progetto ha richiesto prima di tutto un lavoro di sceneggiatura inedita per passare da un romanzo di circa 350 pagine a prima due, poi tre film.
Se da un lato la logica della riscrittura è stata volta a una captatio benevolentiae verso lo spettatore – il prologo che vede di nuovo il Bilbo anziano di Ian Holmes, in compagnia di Elijah Wood nei panni di Frodo, attendere l’arrivo di Gandalf il Grigio nel giorno della sua festa, riportando quindi a poche ore prima dell’inizio de La Compagnia dell’Anello –, introducendo volti e personaggi noti e mostrando con la maggiore evidenza possibile il collegamento tra le due storie, dall’altro si è cercato di arricchire la trama de Lo Hobbit ampliandone il respiro, introducendo le tematiche più alte dell’incombenza del Male assoluto, estranea al romanzo di origine, con richiami a elementi già noti dalla trilogia. È proprio in questa fase originale che il film mostra tutta la sua debolezza. Sorretto da un testo assai meno solido della trilogia di Tolkien, il film vacilla alla ricerca di una propria identità, partendo con toni da commedia piuttosto fiacchi – imbarazzante, per dirlo in una sola parola, il momento musical nella cucina di Bilbo – per poi andare a incupirsi gradualmente quando si recuperano temi del Signore degli Anelli come la spada dei Nazgul e la tavola rotonda con Saruman.
Quello che viene fuori è un film sfilacciato, che riesce sicuramente a divertire quando si muove nella dimensione a Jackson più congeniale, quella dell’azione e delle battaglie, ma che risulta poi incapace di essere all’altezza degli ingombranti predecessori quando i personaggi si fermano a parlare. A parte le sequenze di combattimenti, infatti, solo una scena “riflessiva” splende di luce propria nella generale mediocrità: il primo incontro tra Bilbo e Gollum, con la sua brillante sfida a colpi d’indovinelli in cui emerge la natura sagace dello hobbit e, soprattutto, la caratura dei due attori che si confrontano, Martin Freeman e il digitalizzato Andy Serkis, bravissimo e trasformato da un motion capture di livello eccezionale, che danno una grande prova.
Un film che può contare quindi quasi esclusivamente sulla potenza delle immagini, ma che anche in questo trova una debolezza nell’avveniristica tecnica di ripresa del 3D a 48 fotogrammi per secondo, che fornisce una definizione talmente elevata da far risultare il tutto posticcio, con una profondità di campo che ha veramente poco di naturale e che dona al tutto un aspetto digitalizzato che indebolisce ulteriormente questo primo capitolo della trilogia de Lo hobbit nell’impietoso confronto con Il Signore degli Anelli, che aveva invece nell’incredibile realismo, compatibilmente con la trama, una delle sue forze maggiori.
(Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, regia di Peter Jackson, 2012, fantastico, 164’)
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