[Oscar 2013] “Amour” di Michael Haneke
di Iacopo Accinni / 23 febbraio 2013
Un copione e una sceneggiatura semplicissima. Si tratta solo di osservare una situazione ben precisa: la realtà che è sotto i nostri occhi. Fatti che abbiamo vissuto e che dovremmo, prima o poi, vivere sulle nostra stessa pelle.
Così le rughe vengono ad accumularsi sul nostro corpo, le mani sempre più fragili e doloranti, per via di un’artrosi che non credevamo potesse giungerci così rapidamente. Le ossa e le articolazioni ormai vacillano. Le macchie scure sulla pelle sempre più vistose. Il sapore dell’abitudine e dei gesti quotidiani hanno preso il posto dell’antica frenesia, del volere vivere a tutti i costi. La rassegnazione. Ora l’attesa è rivolta unicamente verso una sola parola: fine.
Basti sapere in tutto questo che George e Anne si amano. Si sono sempre amati e si ameranno anche dopo.
Questo è Amour di Michael Haneke, film vincitore della Palma d’Oro alla sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes del 2012 e candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia. Con un realismo pungente, freddo, che fa male, il regista austriaco ancora una volta vuole sconvolgere e mettere lo spettatore a confronto con l’essenza della realtà stessa.
Con questo suo “studio” amoroso è stata scelta la condizione più estrema, il momento di contrasto per eccellenza tra reale ed eterno: la malattia. Inesorabilmente e ineluttabilmente la loro esistenza viene a frantumarsi per un attacco ischemico di Anne. Il declino sarà rapido e inarrestabile. Mano nella mano, con tutto il loro amour, scendono il vertiginoso sentiero verso il traguardo finale. Del dopo ce ne freghiamo, almeno per ora.
Haneke ha riunito una coppia sacra della comédie française. Emmanuelle Riva è semplicemente unica e stupenda. Nel film incarna l’amore malato, riuscendo ad andare al di là del sopportabile. Rappresenta la bellezza pura che lentamente va a sfiorire, dove di eterno rimane solo l’amore di e per George. Madame Riva ha sempre e solo scelto ruoli secondo le proprie pulsioni e passioni più profonde. Ancora una volta Emmanuelle rispolvera la Duras che è in lei (Hiroshima mon amour), meritando appieno la candidatura all’Oscar 2013 come migliore attrice protagonista. Anziana sì, ma di una grandezza incommensurabile.
E poi Jean-Louis Trintignant è inimitabile. Sublime. L’ultimo re del cinema francese, ha la voce e uno sguardo che si fanno mondo e che in questo ruolo esprime pura umanità, di un calore oggi così raro, così prezioso. Per Trintignant, Haneke ha rispolverato un ruolo degno e alla pari di interpretazioni cucite appositamente per lui da giganti quali Lelouch o Bertolucci.
Se proprio dobbiamo farlo, a malincuore, troviamogli pure un qualche appunto. Haneke è un regista di culto e, da un certo punto di vista, perverso. Egli rappresenta il cinema contemporaneo della morte e anche in Amour porta avanti un gioco sadico, di cui l’unica cavia, spesso inconsciamente, è lo spettatore stesso. È una forma di cinema alquanto fuori dai tempi. O meglio, ne abbiamo proprio bisogno? È una visione che non serve, in una società sempre più angosciosa e angosciante. Niente ormai gira per il verso giusto. Haneke questo lo ha studiato a tavolino. Ovviamente è maestro in questo meccanismo, banalizzando con ciò il grottesco della quotidianità. Un gioco un po’ vuoto ormai.
Il film è ottimista. Un lungometraggio la cui bellezza e al contempo tragicità è totale. La maestria di Haneke sta proprio in questo: sottolineare gli istinti reconditi di ognuno di noi. Rende umano l’uomo e lo presenta semplicemente per quello che è. Attraverso l’arte crudele di una cinepresa viene illuminato il lato nascosto dell’amore, quello della vecchiaia, dell’impotenza, della fine. Questo è Amour.
(Amour, di Michael Haneke, 2012, drammatico, 105’)
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