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“Gli occhiali d’oro” di Bassani. Il marchio dell’estraneità

di Serena Manfrida / 2 maggio

Romanzo breve pubblicato nel 1958 ed entrato poi a far parte de Le storie ferraresi, Gli occhiali d'oro rappresenta un punto di svolta nel percorso letterario di Giorgio Bassani, innanzitutto per la dimensione narrativa più estesa rispetto alle prove precedenti – sino ad allora lo scrittore aveva sempre privilegiato la misura del racconto oppure direttamente il versante lirico –  cui corrisponde la scelta di un io, protagonista e voce narrante, che non si limita più a descrivere ambienti, personaggi, eventi, ma è coinvolto direttamente nella vicenda, in linea con la necessità avvertita dallo scrittore a quest'altezza di cercare un rapporto più diretto con il mondo esterno.

A riferire la vicenda dunque è un giovane intellettuale di origini ebree che racconta il  crollo rovinoso del dottor Athos Fadigati, otorinolaringoiatra, da medico stimato e richiesto dalla buona borghesia ferrarese – che ne apprezza le maniere dignitose ma gioviali, lo studio impeccabile e accogliente, l'aria rassicurante e discreta – a oggetto di disprezzo e derisione, vittima sin quasi collaborante di umiliazione ed emarginazione.

Sin dall'inizio, sulla figura di Fadigati pende un interrogativo sottinteso e irrisolto, un punto di domanda che non si scioglie e che proprio per questo si amplifica e propaga di voce in voce. Tale interrogativo, da Bassani abilmente veicolato anche attraverso il ricorso al discorso indiretto libero, che raccoglie e convoglia i sussurri, i mormorii, le chiacchiere della comunità, riguarda l'impenetrabilità della vita privata del dottore, di cui anche dopo anni e anni di frequentazione i facoltosi pazienti sanno poco e nulla. Ben presto in città non si parla d'altro: fra le mura domestiche, per strada, persino nello studio dello stesso Fadigati, in attesa del proprio turno, ci si rimandano continuamente le stesse domande: perché un professionista affermato, benestante, con ottime prospettive come lui non si trova una bella moglie da sfoggiare, elegantemente vestita, a passeggio e nelle occasioni mondane? Perché la sera lo si vede vagare senza una meta in mezzo alla folla, quasi godesse ad immergervisi, per poi farsi inghiottire da vicoli oscuri e mal frequentati? Perché nelle sue apparizioni al cinema preferisce i posti in fondo alla platea, da cui di tanto in tanto balugina il riflesso rivelatore dei suoi occhiali d'oro, a quelli della galleria, ritrovo della Ferrara-bene cui legittimamente appartiene?

Poi la risposta affiora, non si sa da dove, e d'improvviso è di pubblico dominio, manifestata con un gesto eloquente, una smorfia, una parola dialettale…Fadigati è “così”, “uno di quelli”, omosessuale insomma. Tutti, però, devono concordare che, data la situazione, gli va riconosciuta una discrezione esemplare, una volontà ammirevole di mantenere intatta la reputazione di fronte alle famiglie dei pazienti di cui ha curato e visto crescere i figli, un impegno costante per non dare scandalo. Allo stesso tempo, in virtù di tale rivelazione, quegli atteggiamenti che suscitavano tanta perplessità assumono un senso; dissolto il peso dell'ambiguità, il comportamento del dottore è finalmente decifrabile. Rassicurati dai suoi sforzi quotidiani per nascondere una vergogna che egli stesso mostra di sentire come tale, i conoscenti sanno finalmente come trattarlo: fingere di nulla e salutarlo con la massima cortesia durante il giorno, nei suoi panni di medico preparato e distinto, ed ignorarlo la notte, facendo le viste di non riconoscerlo se anche si imbattessero in lui viso a viso. Finché insomma Fadigati fa di tutto per nascondere il suo “vizio”, per mantenere una facciata di rispettabilità, tutto gli è perdonato: è proprio quel suo aggirarsi cercando l'anonimato a guadagnargli l'indulgenza ipocrita della società, sorta di mezza assoluzione strettamente vincolata al mantenimento del segreto.

Ma Fadigati infine scivola. Come tutte le cadute più fatali, la sua inizia con un piccolo slittamento, quasi inavvertibile. Volendo prendere la libera docenza, si trova anche lui, come

i figli delle famiglie che cura, ormai cresciuti e iscritti all'università, a prendere il treno per Bologna due volte la settimana. All'inizio resta in disparte, osservando “dietro lo spesso cristallo del suo scompartimento” -ulteriore diaframma frammesso tra lui e il mondo oltre alle lenti dei suoi occhiali d'oro- i giovani, con “espressione di invidia accorata” e di rimpianto, poi si fa coraggio e si unisce alla comitiva, di cui fa parte anche il narratore di origini ebree. Dapprima ben accetto, Fadigati, per la sua goffaggine ma soprattutto per l'ansia e il bisogno di accettazione che tradisce, viene preso di mira dalla comitiva, e soprattutto da Eraldo Deliliers, bellissimo e sfrontato, che lo umilia con allusioni pesanti ed espliciti riferimenti – che tutti gli altri accuratamente evitano – al suo orientamento sessuale.

Alle battute e alle provocazioni di Deliliers il medico reagisce con un misto di vergogna e di sottomissione, quasi i suoi insulti stabilissero comunque un qualche tipo di legame tra loro, legame a cui non riesce a rinunciare. E qui la caduta si fa davvero inarrestabile: di lì a poco, le famiglie di Ferrara che trascorrono le vacanze estive fra Rimini, Riccione e Cattolica possono assistere allo spettacolo singolare della coppia formata da Fadigati e Deliliers. I due si spostano insieme da un luogo di villeggiatura all'altro, il primo, affannato e vergognoso, sempre sulle tracce del secondo, che irradia giovinezza e arroganza e sfoggia un'auto sportiva nuova fiammante. Costretto dalla sfrontatezza del giovane a passare l'estate sulle spiagge più note, dove tutti lo conoscono, infranta ormai quella tolleranza che la sua stessa discrezione gli aveva assicurato, Fadigati perde di colpo tutta la sua rispettabilità. Oggetto di dileggio da parte dell'illustre signora Lavezzoli, simpatizzante del duce, e di sopraffazione da quella dell'amante – che lo sfrutta solo per i suoi soldi e infine lo abbandona, portandogli via tutto dopo averlo picchiato in pubblico -,  rigettato e disprezzato da quelle stesse persone di cui in anni e anni di carriera si è guadagnato la stima, il dottore viene così a incarnare una figura drammatica di emarginazione e di isolamento. Al suo crollo assiste il narratore, che, sempre più consapevole della vile ipocrisia della società borghese e della ferocia con cui essa rigetta il diverso (o meglio ciò che identifica come tale), si trova ad esserne a sua volta una vittima. Infatti, nel momento in cui la distruzione sociale e umana di Fadigati è ormai compiuta, inizia la campagna denigratoria antisemita che porterà alle leggi razziali. Il senso inesorabile di separatezza e di estraneità, la rabbia profonda, quasi ancestrale, del sentirsi rifiutato, il furore crescente per la palese connivenza della stessa società con il regime e i suoi  crimini – esemplare in questo senso la matriarca signora Lavezzoli – portano il giovane a isolarsi, ma anche ad avvertire sempre più forte una consonanza, un'affinità con Fadigati. E quando il padre, che attraverso un amico avvocato, anch'egli ebreo, introdotto nelle alte sfere ha avuto rassicurazioni sul fatto che la campagna antisemita è solo una mossa di politica estera e che nessuna legge razziale sarà mai varata in Italia, il ragazzo resta disgustato dal suo palese sollievo, dalla volontà, che in lui traspare, di fare come nulla sia stato purché le cose vadano a posto, “come prima”. Al di là dell'aria di tempesta che vede addensarsi sul proprio destino, egli sente infatti di aver sperimentato un esilio che resterà incancellabile, di portare addosso il marchio dell'estraneità, quello stesso marchio che è stato impietosamente impresso su Fadigati. E, come a conferma di ciò, mentre gli altri membri della famiglia, rassicurati dalle notizie, consumano il loro pasto, dalle pagine del giornale dietro cui si è barricato balza ai suoi occhi un titolo in particolare: “Noto professionista ferrarese annegato nelle acque del Po presso Pontelagoscuro”. Non c'è nemmeno bisogno di chiedersi chi è, quell'uomo derubato persino della propria morte, che, “secondo lo stile dei tempi”, è stata nient'altro che una disgrazia.