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Libri

La mia casa è dove sono

di Silvia De Santis / 17 maggio

La mia casa è dove sono non è un libro, ma piuttosto una mappa. In questo suo ultimo lavoro, l’autrice di origine somala, infatti, traduce, in una dimensione spaziale, il senso di “non appartenenza” che la lega agli altri immigrati di seconda generazione, scegliendo qui la formula autobiografica.
Disegnando con il nipotino la mappa di Mogadiscio, città da cui provengono i suoi genitori, Igiaba si accorge di quanto quel luogo le sia in realtà estraneo. Lei è nata e cresciuta a Roma; la sua Somalia è frutto dei racconti dei fratelli più grandi, delle aspre parole africane della madre e di qualche ricordo di vacanza. Inizia così a sovrapporre a quella cartina tracciata per gioco nomi e disegni di quartieri e monumenti romani (Teatro Sistina, Trastevere, Stadio Olimpico…) che sono poi i titoli dei diversi capitoli in cui il libro si divide. Ognuno di questi luoghi ha, per la scrittrice, un valore speciale e diventa occasione per lasciarsi andare allo stream of consciousness delle voci italo-somale che albergano in lei.
Dunque la città a cui Igiaba sente di appartenere prende forma sotto i suoi occhi; la sua casa si trova in una curiosa ma rassicurante sovrapposizione tra Roma e Mogadiscio che solo un’identità creola può percepire e abitare. L’idea della mappa alternativa è un topos della letteratura migrante, specialmente alle sue origini ossia negli anni ’90. L’immigrato ridisegna le città in cui si trasferisce, assegna rilevanza a determinati luoghi piuttosto che ad altri, individua le zone franche e quelle pericolose. Roma in particolare subisce questa trasformazione per mano di diversi scrittori, tra cui Salah Methnani, in Immigrato, e Fernanda Farias de Albuquerque, Princesa (da cui De Andrè ha tratto l’omonima canzone). La Stazione Termini assume in questi testi una rilevanza centrale, simbolica e nostalgica. Crocevia di viaggiatori e punto di ritrovo per le diverse comunità etniche, Termini è per tutti un luogo amico in cui abbandonare le vesti dell’intruso e dell’emarginato e sognare un giorno di far ritorno a casa.
Al racconto di episodi personali fanno da contrappunto delle riflessioni, quando non addirittura dei brevi e meticolosi saggi sulla storia dell’indipendenza somala, che insistono sull’indifferenza con cui le istituzioni e la società ricordano le missioni fasciste in Africa. E’ utile tra l’altro osservare come la brevità del colonialismo italiano non abbia dato modo alla nostra cultura di radicarsi nei paesi occupati, impedendo così la formazione di una letteratura italo-africana paragonabile a quella delle ex colonie francesi o inglesi. Lo sforzo linguistico e letterario di autrici come Igiaba Scego diventa perciò considerevole. A questo proposito, affiora in più passaggi l’importante ruolo che assume la lingua come segno di appartenenza ad un popolo, ancora una volta un tema caro a molti scrittori migranti. Igiaba rifiuta da piccola di parlare somalo per essere accettata dai compagni di scuola; suo nonno, interprete in Somalia per i gerarchi fascisti, viene guardato con diffidenza dalla comunità locale perché parla “la lingua del diavolo”. Soprattutto il personaggio della madre viene a imporsi come vero custode della millenaria cultura orale africana e, nonostante la sua grande intelligenza, rifiuterà sempre di imparare a scrivere, costellando invece l’infanzia della figlia di fiabe e racconti dei nomadi della sua terra.
La mia casa è dove sono suggerisce, perciò, che una conciliazione identitaria è possibile. Se il multiculturalismo genera ovviamente confusione nei migranti di ieri e di oggi, gli aspetti negativi di questa condizione passano in secondo piano nei testi delle scrittrici della migrazione che invece vedono in essa un’occasione di arricchimento e crescita. Scego, come le altre, si distingue dagli autori di sesso maschile per l’ottimismo, l’entusiasmo e la forza d’animo con cui affrontare un’esperienza tanto traumatica, in questo caso, addirittura, un esilio forzato.