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Sui libri inutili

di Laura Mancini / 10 luglio

 

Molto si è detto sul piacere della lettura, sull’estasi generata dall’incontro con la vera storia, con la narrazione determinante, con il personaggio che siamo noi, ma anche no, da qui lo straniamento, l’appassionamento, la critica eccetera. Il puro sentimento di gioia che ci deriva dalla compagnia di un buon libro spesso sopperisce al peso della nostra desolazione, dalle più o meno concrete origini, la cancella temporaneamente, ci convince alla patetica ma interessante affermazione: «Almeno di questo nessuno può privarmi».

Eppure non sempre. A volte noi lettori forti ci imbattiamo in passaggi forse evitabili e, poiché detestiamo non portare a conclusione l’esplorazione di un testo, pur consapevoli della delusione cui ci stiamo autocondannando, giungiamo all’ultima pagina con un senso generico di noia e spossatezza, che ogni volta ci costringe a domandarci: «Perché?» o anche: «Perché no?»

Di libri inutili è pieno il cosmo dell’editoria. E specifichiamo che l’inutilità è qui intesa non in senso rigidamente giudicante, secondo presunti criteri estetici oggettivi e canonici di crociana memoria che tutti aborriamo e disconosciamo, ma in senso psicologico e personale, anzi personalissimo.

Di recente mi sono imbattuta in un trittico di inaudita inutilità. Il farmaco di Gilda Policastro (Fandango), L’arabo di Antoine Audouard (Isbn) e Seppellitemi dietro il battiscopa di Pavel Sanaev (Nottetempo). Tre romanzi tra di loro diversissimi, di tre autori contemporanei provenienti da tre diversi paesi, prodotti da tre case editrici che potremmo annettere alla categoria del gusto raffinato e della ricerca sperimentale.

Eppure quanta inutilità per me, lettrice abbandonata alla compagnia di questi romanzi così poco convincenti.

Gilda Policastro, brava poetessa, si cimenta nella prova narrativa lunga come dominata dal senso della poesia. E si accanisce sul senso morboso della sessualità, sull’orrore del maschilismo, sulla figura di donna misera, pazza, frustrata, annichilita, però grandiosa. Il tutto poi con quale scopo? Quello di angosciare il lettore? Quello di porre quesiti contraddittori? Non saprei. E il gioco dei nomi femminili tutti inizianti per e, e i dialoghi laconici cinematografici, e la molteplicità dei punti di vista, dei microcosmi coesistenti nell’intreccio di vicende umane un po’ inverosimili, che motivi si celano dietro tutto questo? Notevole l’ambientazione medico-sanitaria e la descrizione della squallida personalità di un medico, figura tanto rispettata spesso senza motivo alcuno, alla luce di una miseria morale in questo caso farcita di tracotanza e narcisismo, smascherato, denudato della presunta santità che gli deriva dal ruolo di guaritore. E poi la confusione tra medicina, psicologia e magia, buttata lì, senza (voluto) approfondimento, senza mai spiegare nulla. Insomma, se ne avesse fatto un poemetto non sarebbe stato meglio? È evidente quanto la vocazione lirica domini e permei il testo intero, dunque ci domandiamo come mai l’autrice non si sia voluta accettare per come è, fortunata poetessa.

L’arabodi Antoine Adouard è una favola noir che ha per tema la xenofobia, intesa proprio come diffidenza culturale generica e bestiale. Il protagonista affronta un percorso alla Giobbe entro una piccola comunità del sud della Francia, sempre più sprofondando nella disgrazia dell’essere incompreso e disprezzato, fino a tragici esiti che tutti immaginiamo. Partito con entusiastica vivacità dialogica e descrittiva, con la rappresentazione comico-espressionistica di personaggi divertenti che sempre più però, con grande maestria, si fanno grotteschi, mostruosi e sadici, il romanzo perde quel piglio da marcetta che ne aveva contraddistinto l’incipit, afflosciandosi ben presto su scoperti schematismi. Peccato per la retorica, per il manicheismo, per il crescente pathos che diventa patetismo, peccato proprio. Certo è che il buffo snobismo firmato Isbn impacchetta sempre libri apparentemente di alto valore, dietro i quali spesso c’è molto poco.

Ultimo bersaglio di questa antipatica riflessione è il romanzo di Sanaev, proprio all’indomani della celebrazione russa tenutasi alla fiera di Torino. Una favola divertente, anche qui iniziata sotto i migliori auspici per la comicità del soggetto, il colore dei dialoghi, la controllata volgarità, l’intento commovente ben dosato… poi però avviene che l’andamento a episodio smussa il tutto, riducendo il libro a una serie di vignette, molto simili tra loro, che finiscono per stancare presto il lettore, al quale l’autore vorrebbe proporre lo stesso giochino, anche qui secondo una divisione un po’ approssimativa – più adatta alla fiaba per bambini che non alla narrativa adulta – tra buoni e cattivi. Come dovrebbe reagire il lettore alla modesta sciatteria di simili finzioni? Scusate, non il lettore, ma me lettrice particolare con esigenze particolari, e ormai annoiata da questi libri scritti per essere entertainment che però mancano l’obiettivo del non confondere la comicità e la snellezza narrativa con la superficialità. Sono cose diverse.