Libri
“La tomba del tessitore” di Seumas O’Kelly
di Chiara Gulino / 19 luglio
A volte anche un piccolo libro può restituire un mondo intero. Un mondo arcaico colto negli ultimi istanti della sua esistenza, appena un attimo prima di essere risucchiato dall’avanzare obliante del tempo moderno.
Luogo simbolo di questo mondo è un antico cimitero della campagna irlandese, Cloon na Morav, il Campo dei Morti: «Chi avesse gettato un’occhiata a Cloon na Morav passando per la strada collinare, ne avrebbe tratto l’impressione di un luogo di sepoltura molto antico, e, fermato che si fosse sulla strada per guardarlo con attenzione, si sarebbe accorto della sua posizione tranquilla e dei venti che, scendendo dalle colline, parevano intonare un cantico per i morti».
Proprio gli anziani abitanti e i morti sono i protagonisti de La tomba del tessitore (Quodlibet, pp.120, Euro 12,00) dello scrittore irlandese Seumas O’Kelly, il “genio più trascurato dell’Irlanda”, ma apprezzato da Joyce e Yeats, famoso più per la sua militanza nel partito indipendentista irlandese, il Sinn Fein (Noialtri soli), che per le sue straordinarie doti letterarie. Morì infatti eroicamente il 14 novembre 1918 per difendere la sede dublinese del quotidiano «Nationality», l’organo di partito, dall’assalto di un gruppo di soldati inglesi.
Percorso da una sottile tensione narrativa, il libro mette in scena una serie di personaggi alle prese con la risoluzione di un mistero: dove sarà mai la tomba dei tessitori, nella quale riposano già il padre e il padre del padre di Mortimer Hehir, il tessitore, appena deceduto?
Solo i vecchi, depositari della memoria collettiva, sembrano in grado si svelarlo. Vere autorità di questa lontana realtà non sono infatti ricchi proprietari terrieri, duchi o principi, ma gli artigiani con i loro mestieri tradizionali da tramandare di generazione in generazione: il tessitore, il bottaio, il chiodaio o lo spaccapietre. Ben pochi avevano diritto ad essere sepolti nel cimitero di Cloon na Morav e il tessitore e il bottaio, Malachi Roohan, erano gli ultimi di queste beneficiarie illustri schiatte, perché «Il fatto stesso di essere sepolti a Cloon na Morav era già di per sé un epitaffio». Poco distante il nuovo cimitero con le sue ridicole pietre tombali a ricordare solo due eventi delle persone che lì giacciono, il giorno della nascita e quello della morte, non ha più nulla della sacralità simbolica che ispira l’antico cimitero, caratterizzato da una lunga striscia di erba dura ispessita da anni di invasioni, guerre, carestie e faide, ormai praticamente abbandonato: «Nessun necrologio risultava intatto: erano tutti stati più o meno rosicchiati dalle fauci del tempo». A contrastare questo oblio sono chiamati il chiodaio Meelhaul Lynskey e lo spaccapietre Chair Bowes, superstiti di un passato che i giovani, rappresentati dalla vedova, quarta moglie del tessitore, e dai due fratelli gemelli scavatori di fosse (da notare come siano privi di nome e identità individuale questi ultimi): «Entrambi i vecchi avevano l’aria di chi fosse stato inaspettatamente rimesso in libertà. A lungo erano rimasti in agguato da qualche parte fra le ombre della vita, giacché il mondo non sapeva più che farsene di loro; mentre ora, all’improvviso, ci si era ricordati di loro ed erano stati chiamati per svolgere un compito che nessun altro sulla faccia della terra avrebbe voluto svolgere». Solo che ormai i vecchi hanno le menti un po’ annebbiate e, se mostrano grande memoria nel rievocare le storie dei sepolti nel cimitero, non altrettanta ne dimostrano nel ricordare l’ubicazione esatta della tomba del tessitore. Sono proprio i battibecchi fra i due mestieranti a scatenare la vis comica di Seumas O’Kelly.
Alla povera vedova dal viso pallido e triste non resta che rivolgersi all’ultimo vegliardo degno di sepoltura a Cloon na Morav, il bottaio Malachi Roohan. Orami moribondo, attaccato alla vita letteralmente solo da una corda, alla visita della vedova si anima in un sermone, scandito dalla sua voce potente, sull’illusorietà del mondo: «La risata di un idiota per la strada, il re che guarda la sua corona, la donna che volta la testa nell’udire i passi di un uomo, le campane che rintoccano nella torre, l’uomo che cammina sulla sua terra, il tessitore al suo telaio, il bottaio che sistema la sua botte, il Papa che si china in cerca delle sue ciabatte: tutto questo è un sogno. E vi dirò perché lo è: perché questo mondo è stato fatto perché fosse un sogno».
Del resto anche l’amore è un sogno, come quello che sta per nascere fra la giovane vedova, pronta a rompere ogni legame con i vecchi, e uno dei due scavatori di fosse.
Uscito postumo nel 1919, il romanzo sa mescolare comico e tragico con grande maestria trasportandoci in una atmosfera rarefatta con una prosa semplice ed elegante. Una vera pietra preziosa, un racconto esemplare che ha l’andamento dei cantari dei bardi gaelici.
Alla fine della lettura anche io ho potuto far eco alle parole della vedova dicendo: «Sono soddisfatta».