Cinema
“Il figlio di Babbo Natale” di Sarah Smith
di Piera Lombardi / 21 gennaio
Pare ci sia gran fame di riferimenti classici purché rivisitati, aggiornati, fruibili quasi a mo’ di street food. Favole aggiornate; parola d’ordine originalità a tutti i costi. Mettiamo il caso de Il figlio di Babbo Natale, film d’animazione apparso nelle sale cinematografiche italiane il 23 dicembre e già scomparso, tempo di programmazione un paio di settimane perché il mandato del Babbo è scaduto e ci apprestiamo a svolgere altre trame e cerimonie tra frappe, castagnole, caste e cosche. A breve le produzioni non saranno neanche più stagionali, piuttosto meteore quel tanto che basta a soddisfare emotività del momento. Già il tema in effetti è precario: Babbo Natale è divinità dei consumi (o di quel che resta dei consumi) in servizio qualche ora; esaurito il compito si trasferisce un anno in ghiacciaia. Nel film animato diretto da Sarah Smith, prodotto per conto della Sony dagli studi britannici Aardman Animations, autori di movie in plastilina, dei successi Galline in fuga e Giù per il tubo e dell’indefinito Gnomeo e Giulietta, scopriamo che Santa Claus è divinità dei consumi una e trina, perché ha famiglia, moglie e due figli. Ecco la novità. Anzi se per questo ha anche un padre, Nonno Natale di 136 anni, una dinastia di antenati che va fino al capostipite San Nicola, una organizzazione altamente tecnologica per fare il giro del mondo e portare i regali a tutti i bambini, una sala comandi che neanche il Pentagono, una mega slitta astronave e un esercito di elfi. Con Il figlio di Babbo Natale si va quindi alle origini del Natale, cercando soluzioni alternative alla “vulgata” e raschiando il fondo del barile in tema. Un figlio di Babbo Natale si chiama Arthur, è imbranato e idealista, appena si muove fa danni e per questo è stato relegato nella polverosa e cartacea stanzetta di smistamento posta mentre tutta la complessa organizzazione della consegna regali è affidata al fratello maggiore Steve, un fanatico paramilitare che conta di sostituirsi presto al padre, in carica ormai da settant’anni.
E pensare che Babbo Natale finora passava per essere un solitario un po’ tocco, senza figli né moglie, con al seguito al limite folletti aiutanti e le renne che chiama per nome. Il film invece si incarica di farne un capofamiglia e di rispondere ai dubbi dei bambini: «Come fa Babbo Natale a portare così tanti regali in tutto il mondo in una sola notte? Come passa dai camini che, tra l’altro, non ci sono più?» La pellicola dà risposte anche a questo attivando fantasia all’uopo. Interessante è il fatto che è giusto un secolo che il cinema lavora per consolidare lo spirito del Natale. La prima versione cinematografica di Canto di Natale di Dickens è un film muto del 1911; la più recente è quella del 2009 di Robert Zemeckis realizzata in tecnica mista dalla Walt Disney. Pietre miliari del genere sono e restano La vita è meravigliosa di Frank Capra del 1946 e Miracolo nella 34a strada di George Seaton del 1947. Da quel momento l’elenco di film dedicati a Babbo Natale o al Natale è lungo, persino deprimente. È vero che il film cerca di dare una svolta alla faccenda in chiave umoristica e leggera con un’idea originale: Babbo Natale è uno che presto o tardi deve andare in pensione, anche se gli attuali governi non ce lo farebbero andare, e si pone il problema del turn over. Arthur Christmas (titolo originale del film) è il degno successore proprio perché ipocondriaco, goffo, sensibile alla magia ma non pratico di tecnologia. Sarà lui a scovare la falla nel sistema che rischia di far incrinare il mito del Natale e a salvare il salvabile. In combutta con Nonno Natale, a bordo di una slitta antiquata guidata da renne che vanno perdendosi nel cielo, realizzerà una missione pressoché impossibile: portare il regalo a una bambina dall’altra parte del pianeta che è stata saltata dal sistema ipertecnologico. Perché conta anche il minuscolo individuo perso nel mondo. Così, diventando percorso formativo del personaggio antieroe, la pellicola fa trionfare lo spirito natalizio come rivincita del marginale e inatteso. Retorica o no, ogni stagione commerciale ha la sua divinità da immortalare: l’anno scorso è comparso Hop, film dedicato al coniglietto pasquale, d’esportazione americana, a glorificare una festa da noi meno sentita. Inevitabile poi che anche le creazioni riuscite si pongano sulla scia di invenzioni antichissime, se non millenarie. Si propongono versioni alternative zeppe di messaggi delicati che uniscono al diletto l’utile del botteghino. Il consumismo “sentimentale” e light è pur sempre consumismo e noi siamo dentro il caravan serraglio e la slitta di consumi farciti di messaggi di valore. Ci vorrebbe l’irruzione sullo schermo di un dio Mitra in tutte le stagioni a riportarci al vero spirito della vita come incessante nascita: sacrificio del toro, la bestia in noi, lotta contro le tenebre, esaltazione della luce, delle energie rinnovabili e soprattutto di quelle non rinnovabili del nostro pianeta.