Varia
“Toni Servillo legge Napoli” al Teatro Argentina
di Francesco Bove / 16 febbraio
Napoli è proprio come la legge Servillo. Caotica, articolata, un dedalo di vicoli insidiosi che scendono a mare, doppia, controversa, enigmatica. L’attore assume su di sé tutte le voci e diviene, sulla scena, portatore di una napoletanità troppo spesso confusa e martoriata dalle cronache, dai giornali, dai media.
Curvo sul leggio, Servillo comincia il suo viaggio nel paradiso-inferno Napoli con un poemetto di Salvatore Di Giacomo dal titolo “Lassamme fa’ a Dio”, interpretato in maniera superba, una vera lezione di teatro, come d’altronde tutto il suo ultimo lavoro. Le voci si rincorrono, si avvitano, Servillo esalta in maniera esponenziale la musicalità della lingua, gioca con i registri, dà enfasi al discorso finale dell’ubriaco caricandolo di pathos.
Si passa poi a Eduardo, “Vincenzo De Pretore”, e il comico si sovrappone al tragico, un luogo comune – il classico scippo – è lo spunto per riflettere sulla tragedia di un povero Cristo costretto, dalle condizioni familiari e dalla sua città, a rubare per vivere. A differenza della Nanninella di Di Giacomo che scappa dal paradiso per andare dal suo bambino, De Pretore vuole rimanere in quel luogo mitico tanto diverso dalla Napoli babilonica di tutti i giorni. Fa una promessa al Padreterno, chiude gli occhi e spira.
Ma è con “Fravecature” di Raffaele Viviani, autore stabiese ancora ingiustamente poco conosciuto, che Servillo fa sentire l’assenza, tiene in tensione, offre un capolavoro tonale che cala totalmente lo spettatore-ascoltatore in un’altra storia, tragica, forse uno dei momenti migliori della serata. La grandezza dell’attore è quella di non fornire una lettura politica ma di mostrare magistralmente un fatto. Gioca, fornisce un bozzetto familiare per poi catapultarsi subito in strada, procede quasi in maniera cinematografica, tanti fotogrammi che si accavallano per poi dare un quadro unitario.
Quando poi si arriva al geniale Mimmo Borrelli, “figlio” di quel Michele Sovente prematuramente scomparso e citato a fine spettacolo, la lingua si fa carne, diventa il suo esatto contrario e, soprattutto con “Napucalisse”, è mantra ossessivo, sputo, sfregio, sfaccimma, canzone e musica dei bordelli. Un arabesco, horror vacui, Caronte che traduce il pubblico da una riva all’altra di Napoli, la voce quasi canta il putrido della periferia, della città, Servillo qui è aprassico, non arriva a controllarsi e mentre in Viviani c’è la speranza finale, in Borrelli c’è solo lo spettro della città che fu.
Poi l’attore si stacca dal leggio e recita a memoria “Litoranea” di Enzo Moscato, testo già affrontato in Rasoi, la città vista dai ragazzini che, nudi sugli scogli, prendono il sole. Servillo si abbandona al flusso e percorre ogni parola con spavalderia e sicurezza e allora sulle labbra si avverte il sale, l’acqua angiospermatica, quelle pupille scugnizze spiritate che guardano il mare e i «guaglioni sugli scogli con vene da assassini e azzurre pubescenze». È la Napoli di Moscato batterica e gravida, bellissima e affascinante, che dà gioia e malasorte, una città non troppo diversa da quella di Di Giacomo. E sembra di vederle queste criature che Servillo si assume e personifica, offrendo un’interpretazione impressionista, col suo sorriso sardonico e il volto da Pulcinella. Infine, Maurizio De Giovanni e Giuseppe Montesano con due testi inediti. Ritroviamo un De Giovanni, come sempre, umano, dolce, col suo spiccato senso della pietas,che mostra la piccolezza dell’uomo davanti a Dio, l’incontro tra Materia e Spirito sotto ai ponti della Sanità. Un in-aspettato De Giovanni, giallista ormai di successo, che si misura in lingua con la sua città, nettamente in contrasto con i mandarini e le sfogliatelle di Ferdinando Russo. Montesano, infine, è la quadratura del cerchio, parente stretto di Di Giacomo.
Bis con “’A livella” di Totò, snaturata ad hoc, due poesie di Viviani e Eduardo e dieci righe di Michele Sovente sulla lingua napoletana. Sono questi versi d’impatto, roventi, il poeta che non dimentica le sue origini, che mescola latino, dialetto flegreo e napoletano per contaminarsi, ritrovarsi nella sua terra pregna di mistero, sulfurea e sconsiderata. Unica mancanza di questo spettacolo grandioso e coerente, ovvero una delle letture (non solo su Napoli) più intense e commoventi degli ultimi anni, è Annibale Ruccello che, citando Sovente, sta qui, «dint’a sti pprete antiche». Ma è bellissimo e folgorante il percorso dettato da Servillo, che mescola alto e basso, che mostra la poesia e il fraceto di una delle città più belle del mondo, che «fete e addora ’e rose», bollente e magmatica, ossimorica, che non abbandona né abbandonerà mai i suoi numerosissimi figli.
Toni Servillo legge Napoli
con Toni Servillo
testi di Salvatore di Giacomo, Eduardo de Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Mimmo Borrelli, Enzo Moscato, Totò.
In scena al Teatro Argentina dal 14 al 26 febbraio 2012
Per maggiori info:
http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=1382