Cinema
“Diaz – Non pulire questo sangue” di Daniele Vicari
di Fernando Bassoli / 18 aprile
Se non esistessero sentenze della magistratura a certificare gli orrori e gli eccessi epocali del G8 di Genova sarebbe difficile credere possibili gli abusi di potere commessi nel 2001 dalle forze dell’ordine, prima nei locali della scuola Diaz e poi nella caserma di Bolzaneto.
Negli anni successivi sono finiti in tribunale oltre 300 poliziotti. Solo 29 sono stati effettivamente processati. 27 sono stati poi condannati (in appello) per illeciti come lesioni, falso in atto pubblico e calunnia, ma gran parte dei reati sono finiti in prescrizione.
Le violenze sui 93 arrestati, trasferiti nel carcere di Bolzaneto, hanno portato a 44 condanne per abuso di ufficio, abuso di autorità contro detenuti e violenza privata. Ma va aggiunto che quando, durante i titoli di coda di Diaz, appare la precisazione che alcuni reati non sono stati puniti solo perché nel codice penale italiano non esiste la fattispecie di “torture”, un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, già turbato da una seconda parte di film all’insegna di una violenza gratuita che getta non poco fango su pur nobili divise e su ordini di superiori che a volte interpretano le norme giuridiche in modo discutibile, per assecondare insane logiche distorte, deviate, che sono poi la vera rovina delle istituzioni di questo traballante Paese o di quel che resta di esso, dopo troppi anni di partitocrazia burocratica fondata su finanziamenti pubblici e rimborsi elettorali che gridano vendetta.
Il film presenta molti volti che raccontano storie diverse, dato che a Genova erano giunti ragazzi da tutta Europa. Ragazzi convinti di poter costruire un mondo migliore. E scusate se è poco.
C’è Luca: un giornalista della Gazzetta di Bologna, testata storicamente di centro destra. È uno che vuole toccare con mano i fatti di cronaca, vedere coi suoi occhi quello che sta succedendo.
C’è Alma, un’anarchica arrivata dalla Germania e insieme a Marco, avvocato del Social Forum, cerca di aiutare i familiari dei “dispersi” nella folla.
C’è Nick, francese, un uomo d’affari. Si trova respinto da tutti gli alberghi, ma è in città solo per partecipare a un seminario di un esperto di economia.
C’è anche il simpatico Anselmo, sindacalista e un pacifista ormai anziano, che sceglie di rimanere in città e non tornare a casa con il bus dei suoi compagni. Forse per tornare a sentirsi giovane… sarà tra i primi a essere manganellato nella scuola.
Ma i singoli personaggi non sono così importanti. Nella sostanza ci troviamo di fronte al tipico genere di “docu-film” oggi di moda, cioè un’opera cinematografica con forti propositi di denuncia sociale, che ha il difetto, a volte, di sembrare l’appendice di un qualsiasi telegiornale, perdendo così per strada quella magia e quella poesia nelle quali si sogna di perdersi e ristorarsi nel momento stesso dell’acquisto di un biglietto del cinema.
Va subito detto che a volte il pur bravo Vicari ha il torto di voler strafare, attraverso una particolare tecnica di montaggio che vorrebbe mettere a fuoco i momenti cruciali visti da punti di osservazione psicologica differenti, se non opposti. Invece finisce per creare una bizzarra sovraesposizione delle medesime sequenze, che confondono e appaiono comunque non necessarie, se non fastidiose.
Il film inoltre, che poggia il suo baricentro sull’irruzione violenta nella scuola (non era meglio farne l’incipit in medias res?) e vive il suo climax nelle micidiali sevizie commesse su ragazzi inermi, picchiati, portati in caserma, dove sono stati denudati, umiliati e offesi (perché?), non appare costruito in modo equilibrato.
Se nella seconda parte c’è fin troppa azione e violenza, nella prima la regia si sofferma troppo sulle vicende minimali di personaggi senza il necessario carisma, mentre trascura il vero “punto di non ritorno” di quel tristemente noto G8 genovese e cioè la morte del giovane Carlo Giuliani.
Inoltre non approfondisce il profilo psicologico criminale di chi davvero fece la storia di quella guerriglia urbana seguita dai media del mondo intero e cioè i cosiddetti “black block”.
Ci dicono che si tratta di cani sciolti che sono soliti infiltrarsi nelle manifestazioni col solo fine di provocare disordini e scontri capaci di gettare nel caos intere città. Terroristi, insomma, che forse hanno l’unico scopo di vivere il classico quarto d’ora di celebrità con qualsiasi mezzo, per alimentare un ego ipertrofico ed evidentemente malato e di riflesso riscattare i fallimenti delle loro esistenze, un po’ come accade(va) per molti gruppi ultrà in ambito calcistico.
Ma i dubbi restano, perché molti credono invece che dietro i black block vi sia una strategia della tensione ben precisa.
Un’ultima dolente annotazione: i registi italiani ci sembrano pieni di passione, indubitabilmente impegnati, ma con tutta la buona volontà non riusciamo a intravedere i bagliori di quel talento cristallino che pure dovrebbe caratterizzare un artista di alto profilo. E questa è una considerazione di ordine generale.
Ricordiamo, nel cast, la presenza di Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Davide Iacopini, Ralph Amoussou, Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Antonio Gerardi, Paolo Calabresi, Francesco Acquaroli, Alessandro Roja, Eva Cambiale, Rolando Ravello, Monica Birladeanu, Emilie De Preissac, Ignazio Oliva, Camilla Semino.
Tutti superano la prova, ma la sensazione è che potessero dare qualcosa di più.