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Libri

“Gloria agli eroi del mondo di sogno”
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

di Francesco Vannutelli / 14 ottobre

La costruzione di un olimpo con le fondamenta ben piantate nell’infanzia, di un pantheon di idoli sudati, lontani dall’occhio perché impossibili (quasi sempre) da vedere, ma vivi e vividi nell’immaginazione capace di far muovere e correre le immagini immobili dei giornali, le parole concitate delle radiocronache.

È quello che fa Gianfranco Liviano D’Arcangelo con Gloria agli eroi del mondo di sogno (il Saggiatore, 2014), ricostruzione personale e autobiografica di una cosmogonia calcistica. Il calcio, in Italia sicuramente più di ogni altro sport e ormai di qualsiasi pratica esteriore, ha la capacità di proiettare l’immaginario individuale in un universo esterno concreto ed empirico. Chiunque abbia avuto un’infanzia si è figurato anche solo per un istante calciatore, ha vissuto con spasimi da finale del mondiale partitelle tra amici, si è immedesimato nella gloria o nella frustrazione di un rigore, si è sentito campione. È su questo corrispettivo tra mondo individuale e realtà oggettiva dei campioni veri che D’Arcangelo costruisce la sua Gloria in un racconto che alterna romanzo e autobiografia, racconto e cronaca sportiva, disegnando un arco temporale privato che va dalla contemplazione del calcio fino al tentativo e al fallimento che porta via il sogno.

Nella sua fantasia di bambino passa il tempo a costruire un tempio per celebrare il calcio, quando ancora il mito è superiore a lui e alle sue potenzialità, esterno ed eterno, quindi inavvicinabile. Sul rettangolo di moquette strappata in giro per casa, con reti fatti di tulle di costumi di carnevale e tribune e stadi edificati con volumi di enciclopedie, pupazzetti Playmobil si affrontano sul campo della Futbolandia privata progettata rinunciando con orgoglio alla scorciatoia del Subbuteo. Siamo negli anni Ottanta personali di D’Arcangelo, i giocattoli assumono le forme e i nomi dei suoi miti superiori, di quella squadra lontana nel tempo ma celebre per essere inarrestabile, l’Aranycsapat di Puskás e Kocsis, il mito oggettivo e storico, e di un insieme di idoli privati presi tra i giocatori sentiti alla radio o visti in televisione, Maradona, Matthaüs, Platini, forgiati nel mito soggettivo in un’unica entità. È crescendo che l’azione si fa imitativa e mitica, cercando sui campi della periferia barese – il Fabbrica Rossa conteso a un altro gruppo di ragazzini – di diventare il mito adorato.

È questo il collegamento costante che pone D’Arcangelo, il ponte che si disegna tra l’individuale dell’immaginazione, o del gesto, e l’oggettivo della storia sportiva. È questa la forza del calcio che sottolinea. C’è Pasolini, dietro, e il calcio come ultimo rito collettivo, ma è declinato, il rito, anche in forma personale. Il calcio è una religione che non si pratica necessariamente nel tempio dello stadio o del campo da gioco. È anche altari privati e contemplazione del gesto, dell’idea. Non solo dei miti esterni, dei «principi del mondo di sogno» come Platini e Baggio per D’Arcangelo, ma anche nell’identificazione con ibeautiful losers, con quelli che non ce l’hanno fatto per pigrizia o paura (o fobie, come l’aereo per Bergkamp), o nei miti semplici, come Butcher sanguinante dalla fronte che continua a colpire il pallone di testa fino a vedersi tingere di rosso il bianco della maglia, o il capitano del Martina, squadra di C2, che diventa l’olandese Krol in una diagonale difensiva e assume gloria anche nei campi di terra, prima di precipitare nel quotidiano di un bancone di videonoleggio, o nelle leggende di passaggio, come il Malines di De Mos e Preud’homme o nel Nottingham Forest giusto e rapace come Robin Hood.

Per D’Arcangelo il calcio è il «mezzo migliore per osservare e assimilare il mondo circostante», nei suoi occhi di bambino, il libro illustrato attraverso cui apprendere realtà come il sacrificio, l’impegno, la gloria. Cerca nei volti dei giocatori in televisione la fatica, la tensione o la gioia del trionfo per comprendere il segno esterno del mondo interiore delle sensazioni.

L’elemento soggettivo e quello oggettivo si impastano in continuazione nel racconto. L’elevazione dello sport a mitologia è l’essenza dell’attenzione mondiale capace di rivolgersi interamente a una singola partita di pallone. Nel costruire questo mondo di miti ed eroi, D’Arcangelo immerge la sua scrittura nell’epica omerica, nei cicli della canzone bretone, nell’antropologia tribale che pone il pallone come totem, come oggetto sacro di identità e possesso. Forma uno stile solenne e lirico, disegna la gloria anche con le parole, non solo con l’idea di renderla tale. E stride, questo linguaggio cerimoniale, con la concretezza dell’azione, con la descrizione della finale dei mondiali 2006 e la canzone delle gesta degli atleti italiani. Stride in un momento in cui il calcio ha perso ogni connotato di gloria epica, ogni dignità di eroismo presunto ed è diventato semplice giro di denaro e interessi esterni, semplice «romanzo polifonico totale» in cui ognuno conosce la propria parte, in cui i miti hanno il connotato dell’automa, della macchina più che dell’uomo, e viaggiano più veloci della velocità stessa, in cui il segno esterno riconoscibile non è più quello della mitologia, ma quello dell’industria. Lo ribadisce D’Arcangelo stesso nell’appendice dedicata a Messi.

Il linguaggio mitopoietico trova la sua dimensione ideale quando si sposa con il momento della formazione e dell’adolescenza, riuscendo a far scaturire l’ironia dal contrasto tra la solennità del tono e la piccolezza dei fatti raccontati. Ma l’abuso della retorica, di una scrittura intrecciata di riferimenti epici negli elenchi e nel catalogo degli eroi, pesa e schiaccia la lettura, la fa scorrere lenta, allontana la purezza del ricordo d’infanzia, in cui è facile immedesimarsi, per contaminarla con un registro che più ostico risulta ostile.

(Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Gloria agli eroi del mondo di sogno, il Saggiatore, 2014, 296 pagine, euro 16)