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Cinema

“Il nome del figlio” di Francesca Archibugi

Da una commedia francese, uno sguardo satirico e dissacrante sulla sinistra borghese italiana

di Francesco Vannutelli / 20 gennaio

Quello dei Pontecorvo è un nucleo familiare allargato. Paolo e Betta sono fratelli, Sandro è il marito di Betta, ma è da sempre, dalle estati infantili passate insieme nella tenuta di famiglia in Toscana, il migliore amico di Paolo. Claudio è amico di tutti, da quando suo padre lavorava per il capofamiglia Emanuele. Sono cresciuti insieme e continuano a frequentarsi. Lo fanno in una cena come tante, in cui Paolo e sua moglie Simona, l’unica che si è unita al gruppo in età adulta, decidono di rivelare il nome del figlio che stanno aspettando. Sarà questo annuncio a far precipitare la situazione e a trascinare tutti e cinque in una specie di resa dei conti di quarant’anni di silenzi e rancori.

Il nome del figlio è solo un pretesto per Francesca Archibugi e Francesco Piccolo (sceneggiatore) per collegarsi al testo teatrale Le Prénom del 2010 portato al cinema due anni più tardi dagli stessi autori, Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte, perché, a differenza dei modelli francesi, la versione italiana risolve nella prima parte l’equivoco sul nome e si apre piuttosto su nuovi terreni di scontro.

Il Paolo interpretato da Alessandro Gassmann è sempre stato il fuoriposto, più che il ribelle, di famiglia. Poco interessato alla politica di cui il padre Emanuele era nitido esponente (una specie di Berlinguer, per dare idea dello spessore e dello schieramento), è sempre stato altro rispetto agli interessi culturali dei genitori e degli amici. Il suo presente da immobiliarista con auto enorme e moglie trofeo gli fa raccogliere consensi al circolo e il biasimo silenzioso dei parenti più prossimi, soprattutto del cognato Sandro (Luigi Lo Cascio), che non è direttamente della famiglia ma che dalla sua posizione di accademico si è arrogato il diritto di essere l’erede, quantomeno culturale, del fu Emanuele. La scelta del nome del figlio è una reazione a questa sensazione di inferiorità, uno schiaffo in faccia alle coscienze assopite sulla presunta posizione di superiorità tipica della sinistra italiana e degli ambienti più radical chic.

È su questo distacco tra mondo reale e mondo delle idee culturali che si concentra lo sguardo sociologico di Archibugi e Piccolo. Tra Paolo e gli altri il solco che si è scavato con gli anni è netto ma ancora scavalcabile. Il ponte comune è l’amicizia, la provenienza, la casa condivisa che non è solo luogo ma è soprattutto strato sociale condiviso. La vera aliena al contesto della cena è Simona, scrittrice per caso di un best-seller ai limiti del porno-casareccio, pieno di particolari pruriginosi sulla educazione sessual-sentimentale di una giovane di Palocco (ma non la parte delle ville, quella povera), ignorante in cerca di redenzione che pensa che la sindrome sia un romanzo meno famoso di Stendhal. Odiata e invidiata da Sandro, che con i suoi saggi vende un centesimo di quanto riesca a piazzare il romanzetto, Simona è lo sguardo esterno che si ritrova a dover giudicare quel quartetto che è una sorta di carrellata storica della sinistra italiana, dei professori di cachemire, delle figure materne accoglienti e pazienti che vorrebbero riuscire ad essere di più affidandosi alla ginnastica isometrica domestica (Betta, interpretata da Valeria Golino), degli artisti alternativi sempre alla ricerca del compromesso tra popolare e colto, fino ad arrangiare Califano in chiave jazz (il Claudio di Rocco Papaleo, che ormai è ovunque), e dei professionisti che tutto sommato strizzano l’occhio alla destra, nell’ultima incarnazione renziana dell’idea oggi detta democratica.

Simona dalla periferia li guarda mentre discutono e mentre cantano Lucio Dalla, prende appunti, li studia, ed è simbolico, o forse no, che a interpretarla ci sia Micaela Ramazzotti, ormai eletta voce nobile della coattaggine romana, l’unica tra gli interpreti che non abbia (ancora) tentato la strada della regia cinematografica.

Fortemente legato al suo impianto teatrale (che poi in Italia il testo è stato portato in scena l’anno scorso, e ancora gira, come Signori… Le paté de la maison, con Sabrina Ferilli, Pino Quartullo e Maurizio Micheli), Il nome del figlio finisce per diventare un’indagine su un’intera classe e su un mondo che è sempre più arroccato in se stesso che non è in grado di conoscersi e di capire ciò che è al di fuori. Replicando dinamiche che ricordano Il dio del massacro di Yasmine Reza, e ancora di più l’adattamento cinematografico di Polanski, Carnage, senza però la ferocia che l’idea di massacro porta con sé, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo aggiornano le terrazze di scoliana memoria e chiamano a giudizio tutto un mondo tra l’alternativo e il fighetto (l’aperitivo a Settembrini) di cui fanno parte, anche, loro stessi.

A tratti la scrittura prevale sulle intenzioni («Sei l’incarnazione della sconfitta di questo paese»), così come il tentativo di analisi sociale prende il sopravvento sulla spontaneità, ma va bene così.

(Il nome del figlio, di Francesca Archibugi, 2015, commedia, 94’)

LA CRITICA - VOTO 6,5/10

Molte parole, molte analisi, tante accuse. Il nome del figlio trapianta un testo francese nella realtà italiana e adatta lo sguardo satirico alla realtà italiana. In realtà non c’è molto di originale nella sinistra messa alla berlina, e non perché si tratta di remake, ma le battute funzionano, i personaggi sono credibili e gli attori sono bravi.