Flanerí

Libri

“Atlante immaginario”
di Giuseppe Lupo

di Mario Massimo / 20 gennaio

Avete presente l’elzeviro? A molti, soprattutto fra i meno anziani, questo termine risulterà poco familiare, essendo decaduto dall’ormai depauperato italiano minimale del mainstream comunicativo: diremo dunque, a loro beneficio, che quel nome era adoperato, almeno fino a qualche decennio dalla fine del secolo scorso, per una piuttosto breve composizione in prosa italiana, di solito entro una colonna di pagina di giornale (quelli di una volta però, a lenzuolo, tanto scomodi da maneggiare in lettura quanto provvidenziali a partire dal giorno dopo, per imballarci qualcosa), il cui scopo era, di fatto, quello di riempire appunto tale spazio tipografico in mancanza di più impellenti sollecitazioni da parte della cronaca quotidiana: salvo a non venir pubblicato, se invece necessità di spazio di questo tipo incombessero. L’elzeviro, infatti, non aveva nessun preciso legame con l’attualità: descriveva il mondo, nei suoi aspetti trascelti fra i più accattivanti, un paesaggio, un’opera d’arte, una mattinata all’ippodromo, e via bellettrizzando di questo passo. Né più né meno, direte, che le Meraviglie d’Italia I viaggi la morte di Gadda; che infatti, non a caso, proprio in questo modo videro in gran parte la luce, prima di ricomparire  dopo qualche anno in volume.

Che tale meritoria pratica novecentesca (meritoria, s’intende, nei confronti del bello stilo della prosa italiana, che non poco se n’è giovata in passato) sia ancora in auge, in questo nostro tempo di frettolosi tabloid e di digitalizzazione ossessiva, ce ne certifica la recente uscita di questo Atlante immaginario (Marsilio, 2014), in cui  Giuseppe Lupo, del resto valoroso e frequentemente premiato narratore, ha raccolto appunto i pezzi, solo latamente cronachistici, usciti su Avvenire fra il 2012 e il 2013.

Agganci a vicende di quei mesi, a dir vero, non mancano di fare capolino, qua e là, per fornire spunto alle riflessioni, sempre guidate da nitida eleganza discorsiva, di Lupo; ma non è questo, il caso più frequente. Occasionalmente si discute di cartografia, e di quanto possano essere permeabili i punti di contatto fra questo modo di rappresentare la realtà e quelli attraverso i quali l’invenzione fantastica s’insinua fra le cose degli umani; oppure di quell’altro inestinguibile modo per disseminare l’invenzione in mezzo ai miasmi grevi della verità, che è la letteratura: soprattutto in quanto l’autore ne ha ampia e fattiva pratica, sì che non è raro gli occorra di aprirsi, in queste pagine, a momenti di sperdimento fantastico, dietro una trama narrativa da rimpolpare di parole (è lui stesso a fare il nome di Pirandello assediato dai sei personaggi dentro l’ombra montante del suo studio), invitandoci così cordialmente a dividere con lui quei privatissimi, esaltanti momenti iniziali attraverso cui ogni scrittore dev’essere passato e di cui poi, a pagina scritta e stampata, non rimane più traccia.

Ma dove Lupo ottiene i risultati di miglior livello, sul piano, certo, di quello che potrebbe esser letto in prima battuta come un “diario in pubblico”, ma evidentemente anche di quella che si lascia senza molto sforzo definire poesia (poesia bell’e buona, per quanto la composizione tipografica si impunti a mantenerle il molto meno pretenzioso status della prosa), dove Lupo, dicevamo, dà il meglio di sé, è nei numerosi brani, pausati sapientemente su tutto l’arco del libro, in cui, partendo da questo o quel frustolo di realtà venutogli fra i piedi, risale, attraverso il fiume muto e tellurico della memoria, di quella fisica, delle vene e del sangue, prima ancora che di quella dei ricordi che trapassano sbiadendo nella mente, su, indietro fino alle sue origini: alla terra che – come i campi di Andes a Virgilio – la nascita gli ha dato e la storia gli ha tolto; la storia, condivisa da Lupo con intere legioni di altri uomini e donne del Sud, che almeno fino agli anni Sessanta di quel nostro sciagurato (e per qualcuno, bontà sua, breve…!) secolo XX, nel Meridione, ha imposto a tanta parte degli intellettuali, o semplicemente degli esseri umani non di altro capaci che di piegare nel lavoro il proprio corpo, l’abbandono del proprio mondo, geografico, certo, ma ancora più di legami d’affetto, di parametri culturali trasmessi dai padri e dagli avi, con cui inquadrare il mondo, e la sua mancanza di senso.

Si dirà che così Cristo ha mosso finalmente il suo passo, oltre Eboli: ma – senza voler adesso entrare nella spinosa diatriba se tutto quello che poteva esser fatto di buono è stato poi realmente fatto, al Sud come al Nord – la testimonianza, civile e trasognata insieme, di Giuseppe Lupo, il rimpianto sorridente per il modo di narrare dei suoi due nonni, la bellissima immagine dei ragazzi lucani che lasciano un frammento d’albero dietro la porta della ragazza a cui vogliono dichiarare amore (chi mai lo farà più, su nel Nord nebbioso, e così tronfio del proprio “progresso”?), restano in noi come possibili risarcimenti che la letteratura si offre di porgere, anche a quel remoto soffrire.

(Giuseppe Lupo, Atlante immaginario, Marsilio, 2014, pp. 160, euro 15)