Libri
La collana Fabula di Adelphi
di Antonio Scerbo / 10 settembre
Qualche matita a pastello e il migliore dei mondi possibili: la casa editrice Adelphi, quasi disponendo per ogni sua creatura di forza magica e irradiante, da sempre tocca, e trasforma per raffinamento, l’immaginario del lettore. Di chi sa che carta e inchiostro, in oggetto unico, si elevano a promessa di altre vie dell’anima. È la mistica del libro, la religione della Grande Letteratura.
L’archetipico valore della narrazione legittima e rende consistente ogni esistenza. Quando i genitori raccontano del proprio vissuto, i figli in ascolto si riconoscono in un disegno che, presenti pure pieghe indecifrabili, non può che appartenere anche a loro. E l’identità si avvia dunque a prendere forma, e dice di sé, guardando a ciò che è stato. Un destino, forse. La propria storia, senza dubbio.
In ogni caso, se l’entropia spinge la contingenza spazio-temporale, il disordine che ne consegue – e che ammalia, simile alla danza di uno stormo nel cielo – può essere in parte contenuto. Bisogna narrarlo.
La collana Fabula di Adelphi nasce nel 1985 con il Milan Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere. E negli anni, giù a cascata i colori: tra copertine minimali, l’attualità veste un continuo di abiti differenti, dall’Europa all’America e ritorno, caotico viaggiare, e ancora sembra volersi trasfigurare, divenendo, con Fabula e tra centinaia di romanzi, incantevole sequela, nella vita che alla luce si espone, disnowdomes dalla rara capacità evocativa di mondi altri. Taumaturgia. O, più semplicemente, stato di grazia permanente.
Ed è così che scegliere qualche titolo, frenando la caleidoscopica corsa, equivale a estrarre oro alluvionale da un fiume ormai celebre per la sua ricchezza: le acque splendono, la collana non si disfa; ogni pezzo è una perla:
– La pelle, di Curzio Malaparte. Napoli è vinta e si offre agli Alleati. È il decadimento dello spirito che offende la carne. La verità accompagna i vincitori; ma c’è un’umanità che resiste anche al più insostenibile degli scempi.
– Pasto nudo, di William S. Burroughs. Il padre della beat generation, il prete della psicotropia taglia, incolla e ritrae un’America dal corpo drogato e dalla mente bucata. Kerouac e Ginsberg ancora ringraziano.
– Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert Pirsig. «Ragione e Qualità si sono staccate», Fedro lo sa e rischia la follia: quando si affronta un percorso iniziatico qualcosa va a perdersi, le strade più ardue sono quelle della propria mente. Si può giungere però a una più alta consapevolezza.
– Un bambino, di Thomas Bernhard. Nella propria infanzia l’autore ritrova in germe tutto l’uomo che ora ne scrive, e la lotta che a oggi non conosce tregua resta quella tra la sensibilità innocente e gli imperativi urlati dal mondo esterno. Prima parte, pubblicata per ultima, di una lunga autobiografia.
– Il lago dei sogni, di Salvatore Niffoi. I luoghi costretti non aspettano che l’insolito per riprendere a sognare. Accade che una giovane vedova in preda alla passione lasci abbacinato il paese di Melagravida, e che le suggestioni crescano veloci in visioni: realismo e surrealismo hanno in fondo la stessa radice.
E a questo punto verrebbe da dire acta est fabula.
Adelphi, però, ne siamo ormai a conoscenza, è un fiume. Che non si arresta, comunque in piena: esondazioni di Fabula, in questa policromatica cartografia. Perché di volta in volta la si riscriva, irriverente proliferazione, soggetta com’è a lasciarsi sedurre dai miracoli dell’entropia.