Varia
“Il Don Giovanni”
di Filippo Timi
Vivere è un “eccesso”, mai un diritto
di Federica Imbriani / 12 marzo
Don Giovanni dorme disteso su un materasso a forma di croce, e alle sue spalle scorrono le immagini di una donna, anziana ma particolarmente bella, che potrebbe essere la madre dello stesso seduttore, la sua prima donna, la più importante, quella da cercare tra le gambe di tutte le altre o sul fondo di una siringa. Entra Leporello e inizia la corsa a perdifiato verso la perdizione, la dannazione e la morte perché, nelle parole dell’attore e regista perugino, Don Giovanni «vive l’eros e la passione sfrenata come una croce, un supplizio di cui non poter mai essere sazio». La sua maledizione sta nel non riuscire mai a saziarsi né a pentirsi, idolo e martire della seduzione, che intende sostituirsi a Dio, proponendo il vizio quale nuova religione amorale, priva di sensi di colpa e responsabilità. Una religione che, in realtà, non è che la codificazione della pulsione di morte dello stesso suo profeta che si svela ogni qual volta occorre una minaccia, la folla inferocita annunciata da Leporello o il diavolo nella tomba del Commendatore, e trova sublime realizzazione nel finale in cui Don Giovanni viene divorato e smembrato da un esercito di baccanti.
Il lavoro di Timi è molto intelligente perché quando si mette mano a un mito quale quello di Don Giovanni, è necessario decostruirlo completamente e appellarsi alla capacità del mito stesso di essere eterno e di sapersi autoadattare ai codici del tempo in cui viene letto. L’autore dichiara, infatti, di essersi ispirato al libretto di Da Ponte e di aver poi proceduto a una quasi totale riscrittura dell’opera tenendo da conto solo gli snodi narrativi della vicenda riuscendo a mantenere il gusto barocco per l’eccesso e la sproporzione, per la forma come sostanza e per l’alternanza tra l’aulico e il gretto, attualizzandoli fino ad arrivare alla pancia dello spettatore. Eppure Il Don Giovanni rassomiglia agli alunni che a scuola sono intelligenti, ma non capitalizzano.
Da un lato si rimane piacevolmente agghiacciati e scomodi durante i soliloqui dei personaggi come quello di Donna Anna che, semi-immobilizzata e semi-catatonica, descrive un parto adolescenziale aprendo una voragine d’orrore e impotenza, mentre una ginnasta cinese allude, volteggiando sulla trave, alla costrizione di spiriti adulti in un corpo infantile. Dall’altro non si può negare che lasci spiacevolmente confusi l’alternanza non organica tra sontuosità e incontinenza, tra interpretazione del testo e improvvisazione, tra uso del ridicolo per guidare alla riflessione e caduta nel ridicolo dovuta all’invasione di corpi estranei all’economia dello spettacolo, senza contare che rimane il dubbio imbarazzante che le reazioni violente di alcuni attori e gli ingressi in scena dei tecnici non fossero studiati per sfondare la quarta parete.
Anche nell’eccedere serve misura, perché dalla misura stessa deriva il gusto per la trasgressione e, soprattutto, perché quando si fa serio, questo spettacolo è capace di bruciare gli occhi dello spettatore con l’intensità del laser. Un po’ come accade per le scenografie, i costumi e le luci che rievocano le atmosfere cinematografiche di Maria Antonietta di Sofia Coppola. Il lavoro di Gigi Saccomandi e di Fabio Zambernardi, già stilista di Prada, in collaborazione con Lawrence Steele, è magistrale, proprio perché si colloca in equilibrio perfetto tra il “troppo” e lo “stroppia”. Il disegno delle luci riesce a far risaltare una scena estremamente curata, ricca e interessante, spalmando secchi di colore vivo su quadri che esteticamente ammiccano ai palcoscenici glam, tra Queen e Renato Zero. Gli abiti ingabbiano i personaggi in movimenti scomodi, rigidi, plastificati, li rendono immagini di sogno o d’incubo, ma sono anche richiami colti al loro vissuto e alla loro interiorità, come il magnifico soprabito di parrucche indossato dal protagonista, che racconta, scalpo dopo scalpo, la storia del rapporto animalesco, crudo, carnale e magnetico del Don Giovanni con le donne tutte.
Il Don Giovanni – Vivere è un abuso, mai un diritto
di e con Filippo Timi
regia e scena Filippo Timi
e con Umberto Petranca, Alexandre Styker, Lucia Mascino, Matteo De Blasio, Elena Lietti, Fulvio Accogli, Marina Rocco, Roberto Laureri
Roma – Teatro Argentina dal 3 al 15 marzo
Torino – Teatro Carignano dal 17 al 22 marzo
Casale Monferrato – Teatro Municipale Monferrato 24 e 25 marzo