Cinema
“Humandroid” di Neill Blomkamp
L’educazione criminale e morale di un robot che vuole essere umano
di Francesco Vannutelli / 10 aprile
Siamo in Sud Africa, nel 2016. Johannesburg è una città invivibile con un tasso di criminalità ormai estremo. Per contrastare l’onda delinquenziale il governo si è affidato alla Tetravaal, una società di ingegneria robotica che ha messo a punto gli Scout, poliziotti robot chiamati a sostituire gli agenti umani nel controllo della città. Deon (Dev Patel) è l’inventore degli Scout, un giovane ingegnere che vuole sempre qualcosa di più. Quando torna a casa dal lavoro, la sera, continua a lavorare. La sua ambizione è quella di riuscire a realizzare degli androidi in grado di pensare e di provare emozioni, degli androidi umani, degli Humandroid. Riesce a sviluppare un’intelligenza artificiale, ma alla Tetravaal non sono interessati a sperimentarla. Gli Scout vanno più che bene così come sono e vorrebbero puntare su altri progetti simili, magari il MOOSE ideato da Vincent Moore (un inguardabile Hugh Jackman in bermuda), un ex militare che ha realizzato una macchina da guerra controllata dall’uomo con la forza neuronale. Per portare avanti il suo progetto, Deon prende uno Scout danneggiato su cui sperimentare di nascosto a casa. Solo che si mette in mezzo una gang di criminali che rapisce Deon e il suo robot e finisce per trasformare lo Scout in un gangster.
Tra il 2009 e il 2010 il sudafricano Neill Blomkamp ha ottenuto un inatteso e globale successo con il suo film d’esordio, District 9, che di fatto ha dato nuova linfa al genere fantascientifico riuscendo a contaminarlo con riflessioni sociali e discorsi anche politici sulla storia del Sud Africa e sulla paura del diverso. Arrivarono quattro inaspettate candidature agli Oscar (tra cui miglior film e miglior sceneggiatura non originale) e incassi mondiali di più di duecento milioni di dollari per un film che ne era costato trenta (grazie al contributo in produzione di Peter Jackson). Soprattutto, per Blomkamp si aprirono le porte di Hollywood. Il suo film successivo, Elysium, arrivato quattro anni dopo District 9, poteva contare su un budget da blockbuster e su un cast internazionale con Matt Damon e Jodie Foster in prima fila. Il progetto non andò proprio bene, soprattutto con la critica. Lo stesso Neill Blomkamp si è dichiarato pentito («I F*cked it Up», ha detto di recente). Con Humandroid – Chappie, il titolo originale, come il nome che viene dato all’androide, e ci sarebbe ancora una volta da interrogarsi sulle logiche che guidano le scelte dei titoli in Italia – tenta la via del compromesso tra l’esordio e il (mezzo) flop del secondo film.
Prima di tutto torna a terra, dopo l’escursione nel mondo sospeso di Elysium, e torna in Sud Africa, dopo la Los Angeles di pattume di Matt Damon. In realtà, lo sfondo cambia poco, perché l’immagine del futuro che Blomkamp propone è sempre simile, improntata su una forte negatività, su un pessimismo per la capacità dell’uomo di trovare nuovi equilibri tra povertà e ricchezza. La fantascienza di Blomkamp ha sempre un forte connotato sociale, anche politico, volendo. In District 9 il discorso sul razzismo era evidente con la segregazione degli alieni nel ghetto, così come in Elysium il confronto tra ricchezza onnipotente e immortale e poveri destinati al macello. In Humandroid la chiave sociale è meno immediata e rilevante, ma c’è sempre.
Dietro la maschera della fantascienza action più spettacolare e di intrattenimento, che strizza l’occhio al filone anni Ottanta, soprattutto Robocop, già solo per l’idea dei poliziotti robot, e Corto circuito, la riflessione di Blomkamp si va a infilare questa volta sulle conseguenze della robotica, per le macchine stesse e per gli esseri umani. Da un lato, c’è la consapevolezza della fine imminente di Chappie, costretto in un corpo la cui batteria è in esaurimento nell’arco di pochi giorni, che fa pensare subito a Blade Runner, dall’altro c’è quella ricerca su cosa renda un essere umano tale, se sia il corpo o piuttosto la sua anima – qui chiamata coscienza – a farne una creatura viva e senziente. Su questo aspetto, se lo sviluppo di un’intelligenza possa rendere una macchina simile all’uomo, si sono già spesi centinaia di film da quando esiste il cinema fantascientifico. Sulla possibilità di definire la coscienza, di isolarla ed eventualmente trasferirla su una chiavetta USB, come prova a fare Chappie, c’è stato il recente Transcendence di Wally Pfister, che si prendeva troppo sul serio e finiva per essere insopportabile.
Humandroid ha il pregio di non essere solo riflessione, anche perché la parte di metafisica robotica è senza dubbio quella riuscita meno bene, molto approssimata e buttata lì per dare un livello ulteriore di lettura, con la sindrome di onnipotenza di Deon che vuole essere chiamato «creatore» e Moore che si oppone agli Scout, e a Chappie, in nome di una religiosità che appare solo ogni tanto.
È nella parte dell’educazione di Chappie che Humandroid dà il meglio, grazie al lavoro incredibile al motion capture di Sharlto Copley, l’attore feticcio di Blomkamp che ha animato il robot. Chappie è una specie di cucciolo che deve imparare tutto per stare al mondo. Nelle mani dei gangster – il duo sudafricano rap Die Antwoord – viene cresciuto come un criminale, ma la presenza intermittente del creatore gli garantisce una moralità e un fondo di bontà invincibile. Praticamente nei suoi pochi giorni di vita compie tutta la crescita dall’infanzia ai primi anni dell’età adulta, con tanto di ribellione adolescenziale e ricerca di figure paterne alternative.
Riuscire a suscitare empatia e tenerezza non è cosa da poco, così come riuscire a conciliare un personaggio quasi da cartone animato con un contesto in cui la violenza c’è, eccome, e con un messaggio finale che sa ben poco di speranza per il destino dell’umanità.
(Humandroid, di Neill Blomkamp, 2015, azione, 120’)
LA CRITICA - VOTO 6/10
Sotto la buccia del film di azione fantascientifica c’è la solita polpa di riflessione di Neill Blomkamp. Accanto al livello sociale tipico anche dei suoi lavori precedenti, questa volta il regista sudafricano azzarda considerazioni tra l’etico e il metafisico sulla natura stessa dell’essere umano. Meglio la buccia della polpa, molto.