Cinema
“Fury” di David Ayer
Brad Pitt alla guerra dentro un carro armato
di Francesco Vannutelli / 2 giugno
Aprile del 1945, Germania. Il sergente Don Collier è arrivato in Europa il giorno dopo lo sbarco in Normandia con il suo carro armato Fury e la sua squadra. Ha già combattuto i nazisti in Africa, in Francia, in Belgio, adesso è arrivato a inseguirli a casa loro. È stanco come sono stanchi tutti i suoi uomini, ma vanno avanti. Ha appena perso uno dei macchinisti in uno scontro con i terribili panzer Tiger tedeschi, che distruggono i carri alleati come fossero sagome di cartone. Al suo posto il comando gli manda Norman, un giovane dattilografo al fronte da otto settimane. Non ha mai combattuto, non ha mai sparato, non ha mai ucciso. Don dovrà farlo diventare parte della squadra, educarlo alla guerra e a tutto quello che vuole dire, anche se lui per primo non ce la fa più.
C’è un prima e un dopo Salvate il soldato Ryan nelle versioni cinematografiche della seconda guerra mondiale made in Usa. Il prima preservava una forma mitologica del conflitto. Gli eroi erano belli, puliti, la guerra era brutta, sì, ma non orribile. Si moriva, ma il sangue si vedeva appena. Con la sequenza celebre e celebrata dello sbarco in Normandia, Spielberg ha creato il dopo buttando via tutta quella tradizione senza macchia e portando l’orrore nei racconti dei nonni e nel momento fondante del mondo occidentale contemporaneo. Anche nella seconda guerra mondiale si moriva come cani trebbiati dalle mitragliatrici, non solo in Vietnam. Il soldato Ryan aveva tirato fuori la violenza, l’odore della morte sui campi di battaglia.
Fury di David Ayer (scritto e diretto) si pone molto vicino a Salvate il soldato Ryan per la descrizione cruda della guerra. Si spinge un po’ più in là, anche, perché mina le basi del titanismo degli eroi alleati e va oltre l’umanità della vita prima e dopo il conflitto. Gli uomini al comando di Don Collier sono sporchi e puzzolenti, brutalizzati dalla guerra nella loro radice umana. La violenza è all’ordine del giorno: li esalta. Le battaglie rendono le loro «le migliori giornate della loro vita» e nel momento della tregua quella violenza che sentono sempre dentro di loro va sfogata in qualche modo, facendo saltare in aria un pianoforte, per esempio, o prendendo ragazze non per forza consenzienti.
Il novellino che si unisce alla squadra del carro Fury fa da contraltare negativo all’orrore in cui ormai sono tutti immersi. Norman conserva ancora quella scorta di umanità che rende impossibile uccidere se non è assolutamente necessario. La guerra gli fa paura, le armi gli fanno paura. Ricorda agli altri, col suo solo essere nel carro, che esisteva un prima in cui loro non uccidevano. Per andare avanti, però, è lui che si deve abituare alla nuova realtà, alla necessità della morte dell’altro come chiave della sopravvivenza di sé. Don ha come nome di battaglia Wardaddy. È proprio come un padre che guida Norman alla guerra, alla sua prima uccisione reggendo la mano che tiene la pistola. Don sa che solo così Norman può sopravvivere e che dalla sua sopravvivenza dipende quella di tutta la squadra. Perché dentro Fury sono tutti parte di un unico organismo che anima il carro, che lo muove e che lo fa combattere, e tutto deve funzionare allo stesso modo.
All’interno del genere bellico (e del sottogenere dedicato alla seconda guerra mondiale) Fury si ritaglia il suo spazio proprio per questa consapevolezza della necessità dell’orrore come primo passo per sopravvivere alla guerra, per la sporcizia senza epica dei suoi protagonisti che non sono Bastardi senza gloria né tantomeno Una sporca dozzina. Sono dei disperati, ridotti come bestie dal conflitto, perseguitati dal pianto dei cavalli che hanno dovuto sopprimere avanzando dalla Normandia molto di più che dalle grida degli umani. Non c’è un senso ulteriore a dare assoluzione, un’ideale di patria o di libertà in nome del quale poter giustifcare tutto. È solo la guerra, quella che vivono, e tutto è guerra e tutto è colpa della guerra.
Supportato dalla fotografia portentosa di Roman Vasyanov, virata al blu e al grigio, Fury riesce ad accostare la frenesia della battaglia a momenti di immobilità dal forte valore espressivo. Ha un limite, però, nella costruzione dei personaggi che risente eccessivamente della retorica del cameratismo e del già visto (e rivisto) nella tipizzazione superficiale: il novellino, il burbero, l’invasato religioso, eccetera. Le apparenti contraddizioni dei vari personaggi – in particolare di Wardaddy, che alterna profetismo e brutalità, e di Norman, che in breve tempo passa dal rifiuto dalla violenza al provare piacere nell’eliminare i nazisti –, possono essere spiegate nel contesto della perdita di sé collegata alla guerra, ma è una spiegazione che regge fino a un certo punto, anche se c’è la scena in cui proprio Wardaddy e Norman ricercano la normalità nella casa di due donne tedesche che spiega parecchie cose su come sia alienante la guerra. Nonostante la debolezza strutturale dei personaggi, Fury si appoggia su interpretazioni di assoluta intensità. Il Wardaddy di Brad Pitt è solido nel suo essere misurato. Il giovane Logan Lerman si impegna con tutto se stesso per far dimenticare Percy Jackson, e dopo Noi siamo infinito e Noah ci sta riuscendo. Jon Bernthal, che era stato Shane nelle prime due stagioni di Walking Dead, conferma dopo The Wolf of Wall Street di poter avere varie sfumature. Michael Peña è al secondo film con Ayer dopo End of Watch. Shia LaBeouf, che interpreta l’ultracredente “Bible” Swan, ha fatto un po’ di numeri sul set: pare che non si sia lavato per tutta la durata delle riprese per entrare meglio nel personaggio. Come se non bastasse, si è ferito da solo in faccia con un coltello per avere cicatrici più credibili, e si è fatto asportare un dente sano.
(Fury, di David Ayer, 2014, guerra, 134’)
LA CRITICA - VOTO 7/10
Puntando molto sulla contrapposizione tra mondo fuori il carro e mondo dentro, Fury rinnega la rappresentazione dell’eroe, sia umano che titanico, per mostrare tutte le fragilità e le contraddizioni della guerra, senza dimenticare l’azione.