Libri
“Gli increati” non è solo un libro
Intervista ad Antonio Moresco in occasione dell'uscita del romanzo conclusivo della trilogia di "L'increato"
di Riccardo Romagnoli / 8 giugno
Gli Increati di Antonio Moresco (Mondadori, 2015) è l’ultimo e più potente romanzo della trilogia iniziata con Gli esordi e continuata con i Canti del caos. Esso lancia una sfida al narrare e al conoscere: tratta infatti della vita e della morte e della non vita e della non morte, e soprattutto dell’increazione, e lo fa con un linguaggio forte che entra e si imprime. Gli increati ha la grandiosa estensione delle cose intere e della realtà. Una lunga e obliqua storia d’amore che va letta e amata, riletta e amata.
Quella che segue è un’intervista che lascia sbalorditi per la forza e l’energia, per la foga che emerge e che tracima, per la bellezza della lingua e per la radicalità del pensiero di uno dei più importanti scrittori contemporanei.
Intanto devo dirti, Antonio, che questo è il tuo romanzo più bello, forse anche perché c’è il meglio – secondo me – di tutti i tuoi romanzi precedenti – da Clandestinità a Gli esordi a La lucina a Gli incendiati a Lettere a nessuno. All’inizio pensavo di farti delle domande seguendo un qualche ordine ma poi mi sono perso perché leggendo e pensando e ripensando al tuo libro, le domande si sono accavallate, scontrate e mescolate, sono “tracimate” e si sono unite da una parte e divise dall’altra. Quindi, vado a ruota libera.
La prima volta che ci siamo incontrati e conosciuti era il dicembre del 2009 e allora mi accennasti al progetto – in parte realizzato e in parte in via di realizzazione – sull’Increato. Mi vorresti dire da dove ha origine il romanzo? Qual è il suo nascere dentro di te? C’è un momento particolare in cui ne è comparso il seme germinale?
C’è una pagina degli Increati dove cerco di raccontare questo momento. È strano ma, ogni volta che cerco questa pagina, non la trovo. Scorro l’indice, vado a sfogliare le parti del libro dove potrebbe essere annidata, ma non la trovo mai. Anche adesso, prima di rispondere a questa tua domanda, l’ho cercata, ma ancora una volta senza trovarla. Chi lo sa perché si nasconde così, anche a me che l’ho scritta, proprio a me, persino a me, soprattutto a me? In questa pagina racconto di quando, un giorno d’estate di più di trent’anni fa, mentre mi trovavo in Calabria e dovevo ancora cominciare a scrivere Gli esordi, mentre stavo seduto in costume da bagno su un gradino reso rovente da sole, mi è successo qualcosa che non saprei definire e che mi è parsa come la percezione di un punto di luce che si espandeva nel buio, o come di una punta di spillo che lacerava la membrana del mondo, come la precognizione in un solo istante che non aveva neppure la durata sconfinata di un istante di qualcosa che c’era da qualche parte e che mi faceva balenare la sua presenza, di ciò che sarebbe stata e che anzi già era questa cosa che non c’era ancora. Però il tutto in modo atomico, senza che sapessi che cosa stesse succedendo, senza contorni, senza che avesse nulla della visione d’insieme, come di qualcosa che stava da un’altra parte, che veniva prima, che verrà prima, che non aveva neppure bisogno di venire prima per venire dopo, che non aveva neppure bisogno di venire dopo per venire prima, a cui bisognava credere e a cui dovevo abbandonarmi completamente e affidare ciò che percepivo come la mia vita e la mia anima anche se non sapevo cos’era, a cui l’avevo già abbandonata anche se non lo sapevo. E mi dicevo, in quella pagina, che questa inafferrabile cosa di cui in una frazione d’istante avevo fatto esperienza non aveva niente a che vedere con un’intuizione narrativa oppure concettuale e neppure musicale. Accidenti, se trovassi quella pagina sarebbe facile rispondere a questa domanda. Ti direi: «Va’ a pagina tale e là trovi tutto!» Vorrà dire che la cercherai tu. Perché devo sgobbare solo io? Sgobba anche tu! Trova questa pagina e poi, se vorrai, trascrivila qui dopo quello che ti sto cercando di dire adesso. Cercala e poi dimmi a che pagina è, così io ci faccio un’orecchia e quando qualcun altro mi chiederà la stessa cosa gli potrò dire: «Va’ a pagina tale e là troverai tutto quello che mi è stato possibile dire su questo argomento. Perché in quel magnete a forma di libro c’è infinitamente di più di quello che ti potrei dire e che ti sto dicendo adesso con le mie povere parole scontornate».
Sono rimasto turbato – la mia reazione nasce da una “simpatia”, cioè da un comune, credo, sentire – da questa tua affermazione: «E poi anche qualcosa di più indicibile, di cui non ho mai parlato, di cui mai parlerò, di cui non si può parlare, che devo custodire dentro di me […] Io ho dovuto fin dall’inizio distinguere i contorni delle cose del mondo dall’interno di questo terribile intontimento e di questo trauma». Sembrerebbe che non solo Gli increati ma l’intera tua produzione siano solo uno sviluppo di un indicibile e di un non confessabile. Mi chiedo e ti chiedo: perché farne cenno se poi questo nucleo è destinato a rimanere taciuto per sempre? Vi è, nell’intero romanzo, una collisione tra la parola che dice e la parola che non sa né può né vuole dire. Come tenti di risolvere questo rovello?
Non è un rovello. Non è un rovello, se ci stai dentro. È un rovello se ci stai fuori. Ma io ci sto dentro. Ci sono cose che possono essere dette e cose che non possono essere dette. Ci sono le cose che possono essere dette perché ci sono le cose che non possono essere dette. C’è la luce perché c’è il buio. C’è la parola perché c’è il silenzio. Bisogna dire tutto, e allora bisogna anche dire che ci sono cose che non possono essere dette, bisogna anche dire che le parole sono circondate dal silenzio. Bisogna anche nominare la presenza di ciò che non si può dire e arrivare fino al limite del silenzio. Questo libro si spinge fino alle soglie estreme della dicibilità, dove anche e persino e soprattutto l’increatore si deve fermare perché, da un certo punto in poi, capisce di fare diaframma all’increato.
Creazione, distruzione e increazione come si pongono l’una in confronto con l’altra?
Ci ho messo più di trent’anni a scrivere quest’unica opera composta di tre grandi parti intitolate Gli esordi, Canti del caos e Gli increati, e ho impiegato quasi tremila pagine per arrivare a rendere dicibile ciò che era fin dall’inizio nelle sue pieghe ma che si palesa e viene preso finalmente di petto in questo libro, e che non è una semplice agnizione ma è come un vero salto di natura e di dimensione. Non potrei certo dirtelo meglio qui, in poche riflessioni concettuali scontornate da tutto il resto e dal portato e dalla moltiplicazione narrativa, sentimentale, emozionale, viscerale, mentale, speculativa e lirica che rende dicibile tutto questo. Il libro è attraversato da movimenti tellurici e salti di piani e da lunghi dialoghi estremi che ci fanno avvicinare poco per volta a quella dicibilità e a quella soglia e che in certi momenti la sfondano e la varcano. Troverai là una risposta più verticale a questa tua domanda.
Leggendo il romanzo ho spesso avuto davanti agli occhi il Gesù del Vangelo secondo Matteo di Pasolini. È un Gesù che viene sempre colto in movimento. E Gli increati è un incessante muoversi di tutto e tutto.
Sì, soprattutto all’inizio, quando le figure sono addirittura in corsa nelle città dei morti, si presentano come corpi e voci e anime che corrono incernierate. C’è stato un momento, mentre scrivevo queste pagine, in cui ho persino pensato che avrei voluto e potuto far entrate tutto il libro nell’arco di quella corsa iniziale, deve compaiono Lazzaro, l’ebreo assassinato a Treblinka, la Suora nera, Aldo Moro ecc. Poi ho capito che non mi bastava neppure quel movimento orizzontale, che dovevo andare anche verso un movimento verticale e poi addirittura verso una magnetizzazione, e allora c’è la discesa nelle città sotterranee dei morti, il fiume seminale, la guerra, e poi la tracimazione nella vita, e poi quella nell’increato.
Sempre su Pasolini: c’è un bellissimo capitolo in cui descrivi l’incontro col corpo martoriato di Pasolini e dici, nella sostanza, che lui non ha capito niente ma alla fine lo abbracci e, in qualche modo, ti senti incredibilmente vicino a lui. Per Pasolini nutri un sentimento di amore\odio?
No, nessun odio. Sì, è vero, in questo incontro io metto radicalmente in discussione alcune delle posizioni di Pasolini, ma non solo sue, perché sono quelle dell’intera cultura e pensiero del Novecento e in particolare della seconda metà del Novecento. Ma non ho nessun odio verso di lui, che è anzi l’unico scrittore italiano con il quale avviene un incontro in questo libro, un incontro molto drammatico e intenso che però si conclude con un abbraccio. In queste pagine – che qui ti posso citare con esattezza: da 740 a 747 – mostro come le sue previsioni e le utopie negative che circolavano in quegli anni non solo non si sono avverate ma che è successo tutt’altro, infinitamente di più e peggio, che nonostante la grande intelligenza e passione, anche etica, che le animava, non hanno colto quello che stava veramente accadendo sotto la punta dell’iceberg, hanno mostrato di muoversi sulle sole superfici culturali e sociali, in molti casi, di non capire niente di quello che stava accadendo nelle zone più profonde, perché quello che è successo dopo e che sta succedendo adesso ha sbaragliato tutte le loro previsioni, si sta dimostrando molto più simile a quello che ci avevano mostrato i grandi scrittori dell’Ottocento come Balzac, Hugo, Dickens, Dostoevskij, Melville. Questo per quanto riguarda la società e le sue ingegneristiche semplificazioni, ma occorre andare ancora più a fondo, non solo in termini di specie. Se non vai all’osso di vita, morte, increazione, non vedi niente, lavori su delle piccole antinomie di superficie, stai dentro uno spazio residuale, stai dentro una consolazione negativa, stai esattamente là dove è stata collocata la letteratura in questa epoca, anche se, come nel caso di Pasolini, ci stai dentro in modo drammatico e conflittuale, non ti avvicini alla cruna e non sei tu stesso cruna.
Ho assistito alla presentazione degli Increati alla Libreria del Mondo Offeso di Milano. Una signora ti ha chiesto quale sinonimo avresti potuto usare al posto di «increazione». Tu hai risposto che non trovavi alcun sinonimo. A me ne sono venuti in mente due, però non so se per te potrebbero essere corretti. Il primo è l’àperion di Anassimandro – un tutto indifferenziato, infinito nel tempo e nello spazio –, il secondo è l’inconscio freudiano come abisso in cui ogni realtà è in un eterno presente. E poi mi viene da pensare anche all’eterno ritorno nietzschano. Cosa ne pensi?
Non prendere quello che sto per dirti come disistima per la tua sensibilità e per la tua intelligenza, che conosco e per le quali ho considerazione. Ma vorrei prendere le mosse da quanto mi chiedi per fare una considerazione più generale. Io vedo una cosa: che la nostra cultura pare funzionare solo andando a cercare analogie nel già noto, come se si fosse preclusa la stessa possibilità che possa esserci qualcosa al di fuori e al di là di quanto è già stato scritto e pensato, come se avesse introiettato dentro di sé delle colonne d’Ercole insuperabili, a differenza di quanto succede, per esempio, nel mondo scientifico, dove la ricerca e la scoperta di quanto è ancora ignoto è la ragione stessa del suo operare. È sconcertante questa cosa, se ci si pensa bene e non la si dà per scontata. Vuole dire, in ultima analisi, che la letteratura e la cultura si sono poste, come dicevo prima, in uno spazio residuale sostanzialmente esaurito, che non immaginano per sé uno sfondamento di orizzonte e una riapertura di spazi. Pare che, in questa epoca, la mente degli uomini di cultura sia strutturata in modo tale da non riuscire neppure a concepire di potersi trovare di fronte a qualcosa di ignoto, che ancora non era emerso, e questo anche in termini di conoscenza. A me pare che con questo libro stia succedendo questo. Si cercano analogie con qualcosa di precedente, come per un riflesso culturale condizionato, come se si avesse bisogno di sentire il terreno sotto i piedi, di trovare qualcosa di rassicurante, di déjà vu, per non trovarsi di fronte a qualcosa che si spinge verso l’ignoto. Non sto dicendo che in questo libro e in questo affiorare del magnete dell’increazione non ci possa essere anche qualcosa che era già stato intuito da altri, sto dicendo che però c’è anche qualcosa di ignoto e addirittura di inconcepibile per le nostre strutture emozionali e mentali così come sono andate a formarsi per selezione al ribasso attraverso migliaia di anni, qualcosa che richiede invece mancanza di paura, capacità di abbandono e di oltrepassamento. Questo è ciò che succede nel campo della cosiddetta letteratura, il falso movimento analogico e antinomico, la costruzione di una rete e di una prigione concettuale, mentre nel campo scientifico, come dicevo prima, c’è un’attitudine di conoscenza che non si pone limiti a priori, c’è la coscienza che ciò che conosciamo è solo una piccola parte, che conosciamo solo il quattro-cinque per cento persino della materia di cui è composto l’universo e che bisogna muovere verso l’ignoto. E in letteratura? Bisogna invece stare in questo quattro-cinque per cento? Ma, per tornare in modo più specifico a ciò che mi chiedi, non posso che ripetere qui quello che ho detto durante quella presentazione. No, io non trovo un sinonimo alla parola «increazione» così come affiora negli Increati, è addirittura intrinsecamente impossibile trovarne. Le nominazioni che tu proponi contengono sicuramente qualcosa di significativo, ma l’increazione è un’altra cosa, come dice persino la parola stessa, se la prendiamo nella sua inconcepibilità non edulcorata, non si può ridurre a qualcosa di esistente e di concepibile e concettualizzabile, non può collocarsi né tanto meno esaurirsi nel campo del tutto o dell’infinito. Come fa a essere tutto, indifferenziato o infinito, se è increato? E come fa ad avere qualcosa in comune con l’abisso psicofisico dell’inconscio, o con qualsiasi altra cosa che stia dentro il cerchio concettuale del tempo e con l’abbraccio della creazione e della distruzione e dell’istantaneità e dell’eternità e dell’immortalità della creazione e della distruzione? E come può avere qualcosa a che fare con l’eterno ritorno dell’esistente, o con l’amor fati, o con la semplificazione linguistica dell’innominabile di Beckett, come mi ha suggerito qualcuno, o con l’Origine contrapposta alla Genesi che si trova nel Dramma barocco tedesco di Benjamin, come mi ha suggerito un’altra persona, o con la decreazione di Simone Weil, che indica una diminuzione progressiva della creazione, che è cosa del tutto diversa dall’increazione, ecc. Certo, mi rendo conto di chiedere a chi vorrà leggere questo magnete in forma di libro – che non tiene fuori neppure l’inconcepibile e l’increato e che anzi fa di questo la dimensione e la proiezione stessa di ciò che si rende dicibile alla fine o all’inizio di questa impresa – di staccarsi dalla forza di gravità culturale che tiene ogni cosa impastoiata e ancorata, tanto più in questa epoca, di chiedergli di muovere verso una grande inconcepizione e invenzione. Lo so che è difficile eppure, nello stesso tempo, è la cosa più facile, a me pare che noi siamo molto vicini a quanto viene evocato e reso dicibile in questo libro, che siamo una stessa cosa con esso, che ci siamo così vicini e così dentro che non lo vediamo. Così a me pare che questo libro sia il più difficile e il più facile che io abbia scritto e che sia mai stato scritto, proprio perché non sta dentro il piccolo residuo dove siamo o crediamo di essere.
Al di là dei temi religiosi che affiorano nel romanzo, vi è una scrittura che in quanto profetica rimanda alla sacralità. Gli increati è profetico in che senso e in che direzione?
In questa epoca si è limitato il campo di ogni cosa, anche quello della parola e della letteratura. Ma non solo in questa epoca, è una storia lunga migliaia di anni, che parte in modo evidente e clamoroso dall’interdizione o dalla limitazione di spazi imposta alla “poesia” da filosofi come Platone e Aristotele, cioè da chi, a un certo punto, si è autoeletto a sacerdote di questa nuova religione chiamata “verità”, mentre i “poeti” vengono confinati nel regno della menzogna e della finzione contrapposte a questa presunta e scontornata “verità”. Negli scrittori e poeti antichi, sia in Omero che in quelli biblici e di altre parti del mondo, c’era una compresenza di narrazione, romanzo, poesia, pensiero, invenzione ecc. E c’era anche profezia. Non è che dopo non ci sia più stata, c’è stata eccome, c’è stata tutte le volte che gli scrittori e i poeti si sono ribellati a queste paralizzanti antinomie e hanno sfondato le pareti della prigione in cui sono stati chiusi i nostri cuori e le nostre menti e hanno respirato molti respiri in un solo respiro. È successo con Dante, Cervantes, Shakespeare, Melville, Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, solo per citare i più noti e i più grandi. Nelle loro opere c’è questa moltiplicazione e c’è anche profezia, quella dimensione che troviamo separata e nominata negli scritti dei profeti biblici, uomini in preda alla veggenza, anche se erano imprigionati nel fondo di una cisterna. Questo elemento è lacerante ed è perturbante, e così non viene ascoltato, viene stigmatizzato o lo si confina in una piccola prigione puramente estetica, si cerca di disinnescarlo e di depotenziarlo dentro un reticolo normativo e teorico che è divenuto sempre più qualcosa di simile a un’identificazione con l’aggressore. Io credo che quando vai a toccare dei limiti muovi anche un elemento di sfondamento profetico, e che non è vero che questo non sia più attingibile. Anch’io non accetto questi limiti e tutta la mia opera di scrittore e in particolare Gli increati stanno lì a dirlo.
Il santo eviscerato di quando torni al seminario. La tua prosa ha qualcosa delle tavole anatomiche e degli scorticati di Vesalio.
Sì, c’è anche questo, ci sono anche le viscere, ma c’è anche la mente, e c’è anche il cuore, c’è l’orrore ma c’è anche l’abbandono lirico, c’è il terrore ma c’è anche l’amore, c’è il buio ma c’è anche la luce che continua a balenare nell’infinito buio.
Per te scrivere è conoscere o tentare di conoscere. Ne Gli increati, come in tutta la tua produzione è fortissima – e si sente – la tensione della parola verso il sapere. Mi viene da citare, uno per tutti, Leopardi. In questa opera, più che in altre mi sembra, poni la letteratura dentro la religione e soprattutto dentro la scienza. Mi vorresti spiegare meglio questa stretta parentela che unisce fonte di ispirazione e scienza.
È vero, in questo libro fanno irruzione campi di forza e saperi che sono stati chiamati religione, scienza ecc. Per quanto riguarda la scienza, sì, in questi anni ho letto con passione diversi libri scientifici, che in qualche caso mi pare superino anche narrativamente molta prosa contemporanea cosiddetta letteraria, anche se non voglio spacciarmi per un esperto di saperi scientifici e se le mie conoscenze sono certamente rudimentali. Però alcune cose che mi ha detto la scienza di questi anni mi sono rimaste profondamente impresse e io non posso fare finta di niente, non posso stare dentro un residuo e continuare ad avere un’idea di convenzione della vita, del tempo, della materia e del mondo dopo quello che ci hanno detto la fisica, l’astrofisica, l’antropolgia, le genetica. Una volta ho trovato scritto da qualche parte che quando Kleist ha letto la Critica della ragione pura di Kant è andato in crisi perché quest’opera gli ha terremotato tutta la sua precedente struttura conoscitiva. Gli scrittori di questa epoca dovrebbero invece stare in un posticino residuale e rassicurante da sopravvissuti tenendo a distanza di sicurezza ciò che ci stanno dicendo da tempo gli scienziati? Anche se non ho un’idea ancillare della letteratura, nei confronti di nulla, neppure delle scienze, anche se non ho attuato un travaso ma una moltiplicazione, anche se mi pare di avere aperto una cruna e un altrove, e che ciò a cui perviene Gli increati vada da un’altra parte persino rispetto a ciò che ci sta dicendo la scienza, e che ciò da cui prende lo mosse venga fuori anche e soprattutto da qualcosa d’altro, da un magnete che era annidato al suo interno fin dall’inizio e fin dagli Esordi e di cui avevo quasi a mia insaputa disseminato tracce linguistiche e di altro tipo come le briciole di pane di Pollicino.
C’è in te una grande curiosità per la molteplicità delle forme viventi. Ne Gli increati mi hanno stupito – piacevolmente – le tue parole sui batteri e la luce. Sempre riferendomi alla tua presentazione alla Libreria del Mondo Offeso dicevi che il senso dell’immortalità è da scoprirsi in semplici organismi che vivono in fondo agli oceani.
Se io parlo degli occhi mi balza nella mente che il nostro strumento visivo, con cui vediamo e crediamo di vedere il mondo, si è formato via via anche per l’irruzione di miliardi di cellule che avevano invaso il nostro corpo come virus e batteri e che poi sono state soggiogate e ridotte a cellule schiave rese funzionali allo strumento della visione, come dico già ne Lo sbrego. E che quindi non ci sono solo io che vedo o credo di vedere ma vedono in me anche eserciti di microrganismi che sfondano la visione e che si gettano nello spiraglio della visione. Così come quando parlo di immortalità – cioè della frontiera o dell’illusione o del mortuario mito tecnologico di questa epoca – mi viene in mente una piccola medusa che vive nelle acque del Mar dei Caraibi, di cui parlo a pagina 1000, che già da chissà quanto tempo è in grado di invertire il ciclo dell’invecchiamento, ecc.
Del discorso scientifico non prendi la struttura dimostrativa. Piuttosto il romanzo corre su iterazioni – anche queste rituali e sacrali come nella liturgia o nelle strutture formulari della poesia omerica –, iterazioni che hanno il fascino ipnotico dell’incantamento.
Qualcuno ha detto o scritto che in questo libro ci sono ripetizioni. È vero e non è vero. Ci sono sì parole che vengono ripetute, però ogni volta che vengono via via rinominate all’interno di frasi diverse dalle precedenti spostano di un po’ l’asse della conoscenza e della percezione in questo avanzare al buio e in questa apertura continua di orizzonte. Ma hai anche ragione tu a dire che hanno un effetto ipnotico e incantatorio, producono – anche per me mentre scrivevo – una trance che mi teneva aperta la cruna e che mi indicava un passaggio. Perché noi, come singoli o come specie, nel momento in cui abbiamo bisogno di andare verso una grande invenzione e visione abbiamo bisogno di attingere anche a queste forze che sono sepolte dentro di noi e che non sappiamo noi stessi di avere fino a che non abbiamo trovato il modo di connetterci con esse e di liberarle.
Narrativa, la tua, che diventa musica. Abbiamo parlato di religione e poi di scienza. Ora dimmi come Gli increati si pongono nei confronti della musica.
Una delle tante forze a cui bisogna attingere e che bisogna dissotterrare, anche in un’opera che si palesa attraverso la cruna delle parole, è quella della musica, di ciò che all’interno del libro chiamo la tracimazione musicale del mondo. Perché anche la musica è una forza che è stata separata e resa autoreferenziale, mentre la sua irradiazione agisce su più dimensioni e piani, sentimentali, emotivi e mentali ancora non separati, non sta solo dentro se stessa. E invece, a obbedire alle normative, alle separazioni e parcellizzazioni che sono state via via accettate e introiettate, ci dovrebbero essere gli scrittori che possono solo raccontare le loro storielle, i poeti che vanno a capo, i filosofi che si occupano del pensiero concettuale scontornato, i musicisti che ci danno dentro a frugarti nelle viscere, siano esse intestinali o mentali, ecc. Tornando alla mia risposta precedente, e sempre a proposito della ripetizione, una lettrice-scrittrice – in risposta a questa accusa superficiale che mi viene mossa da chi il più delle volte non ha neppure letto il libro ma lo ha solo sfogliato – ha fatto un’obiezione che mi sembra molto acuta: direste la stessa cosa a proposito della musica? Sì, perché la musica ha proprio come elemento portante quello del rilancio, sia nella forma della ripresa di parole e di note che in quella del contrappunto e della fuga, che hanno piuttosto a che vedere con una continua apertura di spazi e con un allargamento musicale del mondo. A qualcuno passerebbe mai per la testa di definire ripetizione e di ridurre alla sola dimensione della ripetizione una fuga di Bach, per esempio?
(Antonio Moresco, Gli increati, Mondadori, 2015, pp. 1032, euro 30)