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Libri

“La scrittura e la malattia”
di Carlo Di Lieto

Il male oscuro della letteratura

di Michele Lupo / 17 luglio

Carlo Di Lieto attraversa le opere – ma si potrebbe dire la stessa esperienza umana – di alcuni nomi fondamentali della letteratura italiana del secolo scorso segnati dalla malattia. Saba, Svevo, Campana, Berto; Moravia, Buzzati, Pirandello (al quale aveva dedicato già un libro, Pirandello pittore, che metteva in luce l’importanza non meramente hobbistica del dipingere nel grande drammaturgo). I nomi di cui sopra, assieme ad altri ad avviso di chi scrive decisamente sopravvalutati (uno per tutti: Alda Merini), hanno in comune un rapporto più o meno straziante, ma di sicuro fecondo sul piano letterario, con la malattia: questa grande rimossa del discorso odierno, che si tratti di studi letterari o della pubblicistica generalista. Vero che spesso – e basterebbe pensare a certi monumenti inaggirabili quali Proust, Mann, Kafka – il tema si è inevitabilmente intrecciato-confuso-immedesimato col grande topos della décadence, esaurito il quale è venuto meno anche l’interesse per la faccenda dura e cruda della malattia.

Vero che li discorso sulla psicoanalisi (che bordeggia quello in esame molto da presso, com’è ovvio) oggi gode di una fortuna molto minore rispetto ai decenni scorsi; e ancor più vero che l’utilizzo ormai pressoché da banco di quei medicinali per la stabilizzazione dell’umore che sembravano ancora fantascienza nei romanzi di Philip Dick, rischiano di trasformare con disinvoltura la vita umana sulla terra e di conseguenza la letteratura che la racconta. Ma «il male oscuro» della letteratura resta non solo una via tematica forte per definire un capitolo ricchissimo per un eventuale canone italiano del Novecento, ma anche volendo esser pessimisti (ossia buttando la vecchia e fuorviante etichetta di pessimisti a diversi dei nostri grandi) e prefigurando un benessere a bassa intensità fatto di xanax e prozac, resterebbe quanto meno una traccia mnestica per ricordare chi siamo davvero, da dove veniamo ed eventualmente cosa abbiamo deciso di lasciarci alle spalle. Scrittori diversi il cui disagio di stare al mondo ha conosciuto differenti matrici: straniamento e proliferazione di personalità in Pirandello, la cui esperienza biografica benché drammatica ne avrebbe stimolato anche la fortuna artistica: una moglie impazzita da osservare quotidianamente, fino a umana tollerabile sopportazione. La psicoanalisi irrisa ma tutt’altro che trascurata dallo Zeno sveviano, personaggio fra i più moderni ed esemplari di una storia letteraria grandiosa che lo avvicina ai maestri nevrotici della letteratura mondiale coeva e non. Un uomo – una scrittura – in cui il confine fra menzogna, invenzione e maniacale registrazione del dettaglio interiore vanno di pari passo. Lì è evidente il dilemma, che sarà anche di figure apparentemente più sobrie, da Montale al sedicente illuminista Thomas Mann, della difficoltà di rinunciare alla malattia, revocabile nella più creativa formula del «guarire dalla salute»: perché nella malattia si nasconde anche la sorgente di possibilità conoscitive inaudite. Ci sono casi più duri, la pazzia di Dino Campana per esempio. Il rischio di gigioneggiare borghesemente con il male di vivere (come rischia di fare – e lo sa benissimo – l’antieroe sveviano) qui lascia spazio al manicomio, quello vero. Quello che lo psichiatra Mario Tobino osserva da medico sì ma molto empatico, al punto di rileggere la grande irrisolta questione della salute-malattia da prospettive nuove. L’io diviso, che recide con un taglio acuminato e terribile la psiche di Giuseppe Berto – un uomo che era stato fra le altre cose convinto soldato fascista – è del resto locuzione (ci si perdoni) felice della cosiddetta controcultura dei Sessanta e Settanta (si pensi a Laing). La scrittura come un male inevitabile che allontana dal mondo figure che lo abitano già con difficolta, ma scrittura come terapia anche. Gli intrecci del male sono ricchi, come l’interminabile analisi di un poeta tanto complesso interiormente quanto apparentemente agevole sulla pagina: il grande Saba. Né scherza la malinconia di Gozzano, o l’irriducibile – e pagata a caro prezzo – alterità di Sandro Penna. Troppo da dire sul tema, difatti non pochi scrittori restano fuori dall’analisi di Di Lieto (nome paradossale quello dell’autore, ce lo consentirà…) ma il suo resta un volume ricco, che accanto ai nomi citati rivede i casi di Bonaviri, Buzzati, Morante e Moravia.

(Carlo Di Lieto, La scrittura e la malattia. Il “male oscuro” della letteratura, Marsilio, 2015, pp. 480, euro 35)

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Tema in apparenza desueto quello svolto nella raccolta di saggi La scrittura e la malattia di Carlo Di Lieto, in realtà da sempre, ben prima della décadence, intrinseco all’esercizio se non alla mania letteraria. Qui, un percorso possibile e ragionato nel Novecento italiano.