Cinema
“Creed” di Ryan Coogler
Un altro mito cinematografico che torna in vita
di Francesco Vannutelli / 15 gennaio
Quarant’anni dopo il primo Rocky, premiato con il premio Oscar per il miglior film nel 1977 che proiettò Stallone, con le nomination come migliore attore e miglior sceneggiatura, in un Olimpo ristretto di cui fanno parte gente come Charlie Chaplin e Orson Welles, il mito del pugile di Philadelphia riparte da un nuovo inizio con Creed, reboot del franchise (come si dice adesso) ideato e diretto da Ryan Coogler che sposta l’attenzione sul figlio del rivale e amico storico di Rocky, Apollo Creed.
Adonis, il figlio di Creed, è cresciuto senza famiglia, entrando e uscendo dal riformatorio finché la moglie di Apollo non lo ha trovato e lo ha fatto crescere con lei, nella grande casa a Hollywood dell’ex campione del mondo dei pesi massimi. Non è suo figlio, ma è come se lo fosse, non è sua madre, ma è come se lo fosse. Adonis ha un bel lavoro e una vita lussuosa, ma sente fortissimo il richiamo del ring che lo porta più e più volte oltre confine, in Messico, per incrociare i guantoni con i pugili locali. Nonostante l’opposizione della signora Creed, Adonis decide di lasciare tutto e volare verso Philadelphia in cerca di Rocky Balboa, lo storico antagonista del padre, per essere allenato da lui e diventare finalmente un pugile professionista.
Creed si infila nel filone di quei film che puntano sull’effetto nostalgia che ha caratterizzato l’ultimo anno cinematografico, da Jurassic World a Terminator: Genysis, passando per Mad Max: Fury Road e arrivando fino a Star Wars: Il risveglio della forza. Se da un lato queste operazioni dimostrano il livello d’emergenza a cui è arrivata la creatività degli studios hollywoodiani, ormai incapaci, o non interessati, a far partire nuove idee e sempre pronti, piuttosto, a recuperare sicurezze del passato,dall’altro lato si può dire che Hollywood ha ormai deciso di rendere omaggio alla sua stessa grandezza e agli appassionati che l’hanno alimentata andando a stuzzicare le corde più intime del ricordo, quelle che legano a personaggi immaginari come ad amici veri.
Questo indiretto capitolo sette della saga di Rocky ha più di un punto in comune con un altro settimo episodio uscito da poco: quello di Guerre stellari. Come Star Wars per tornare a una grandezza dimenticata ha dovuto essere tolto di mano al padre George Lucas, così Rocky è potuto tornare allo spirito originale solo allontanandosi da Sylvester Stallone, che lo ha ideato, coltivato, difeso, imposto e poi sfruttato in troppi seguiti sempre peggiori. Creed è il primo film della storia di Rocky a non essere stato scritto da Stallone, tanto per iniziare. Tutto del modello rimane intatto, il percorso di crescita, il riscatto del pugile, la lotta sul ring come metafora della vita, ma questa volta a confezionare e ideare il progetto non è il padre Stallone, ma un fan come Ryan Coogler, che ha immaginato un modo nuovo per dare nuova vita a tutta la serie, con una linfa e un punto di vista nuovi, più vicini alle origini che alle derive degli ultimi film.
Lontano dall’impegno della scrittura o della regia, Stallone si è limitato (si fa per dire) a co-produrre e soprattutto a rimettere i panni del suo «migliore amico immaginario», come lo ha definito ritirando il Golden Globe per la sua interpretazione come migliore attore non protagonista. Per questo nuovo/vecchio Rocky, Stallone ha ricevuto anche la nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista. Sembrerebbe molto probabile una sua vittoria (anche se Mark Rylance in Il ponte delle spie è molto quotato, e Christian Bale in La grande scommessa è come sempre bravissimo, e anche Mark Ruffalo in Il caso Spotlight), che lo proietterebbe quarant’anni indietro nel tempo, quando con il primo Rocky si rivelò come un attore con del potenziale troppo spesso lasciato soffocare dalla muscolarità.
In questo Creed, il suo Rocky fragile e anziano, logorato dal dolore per la perdita dell’amata Adriana, è di un’umanità realistica e toccante. Oltretutto, l’intesa con il co-protagonista Michael B. Jordan (che già aveva lavorato con Coogler nel film indipendente Prossima fermata Fruitvale Station) è immediata e naturale, nelle battute, nelle provocazioni, nell’affetto silenzioso. Adonis ha bisogno di una figura paterna che non ha mai conosciuto, Rocky di una ragione per aver voglia di restare vivo, e Stallone e Jordan si muovono in simbiosi per far crescere i loro personaggi.
La forza di Creed è proprio nella trasmissione dell’eredità da Rocky al nuovo protagonista, nel passaggio di consegne che questo film rappresenta in attesa degli inevitabili e già annunciati seguiti che porteranno avanti la storia di Adonis. C’è, in Creed, un modo molto interessante di confondere il reale con la finzione, con Adonis che si guarda su Youtube i video dei combattimenti del padre, che sono poi gli spezzoni dei vecchi film, con la statua di Rocky che davvero si trova a Philadelphia che diventa un monumento a un campione esistente, con la HBO che trasmette documentari sui pugili immaginari del film e così via. È un mondo in cui quello che esiste nella finzione è diventato reale, ma in cui esiste un livello ulteriore di fusione/confusione, quando Rocky guarda la foto del figlio andato a vivere lontano, e lo spettatore può commuoversi con Stallone, perché il bambino in quella foto è Sage, il figlio di Sly morto tragicamente nel 2012.
Coogler, poi, impiega una cura particolare nelle scene di combattimento, l’elemento naturale dei film Rocky, che qui trovano un nuovo linguaggio per esprimersi che mostra tutto il talento del regista, soprattutto nel secondo incontro con “The Lion”. Quello che è certo, però, è che il figlio di Apollo non è pronto per camminare sulle sue gambe, non solo sul ring.
Il film conosce i suoi momenti più deboli quando Stallone è lontano dalla telecamera. Va bene il ritorno alle origini, va bene la celebrazione di quella voglia di riscatto alla base del primo Rocky, con Creed junior che combatte contro il suo stesso nome, contro la solitudine delle case famiglia, e via di seguito, ma c’è soprattutto tanta retorica semplice semplice nei dialoghi, tanta prevedibilità nei passaggi narrativi, tanta approssimazione negli scarti psicologici (siamo ai livelli di «Fai questo!» «No!» «Ti ho detto fallo!» «Ok hai ragione lo faccio!»). Certo, dimenticandosi cosa fosse il primo Rocky – ossia un grande film – e tenendo a mente solo quello che è venuto dopo sarebbe lecito chiedere «E che ti aspetti da un film di Rocky?», ma non regge, perché Creed avrebbe potuto fare di più del necessario per essere un bel film di pugilato e diventare qualcos’altro. Come è stato Rocky, come non sarà mai un Creed.
(Creed, di Ryan Coogler, 2015, drammatico, 132’)
LA CRITICA - VOTO 6/10
Settimo capitolo indiretto della saga di Rocky Balboa, Creed prova a tornare alle origini del mito con la voglia di affermazione del nuovo arrivato, ma ha ancora troppo bisogno di Rocky e di Sylvester Stallone per stare in piedi da solo.