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“I pesci non hanno gambe” di Jón Kalman Stefánsson

La storia di una famiglia ambientata nel posto più nero d’Islanda

di Valentina Di Biase / 8 febbraio

«A Keflavík ci sono tre punti cardinali; il vento, il mare e l’eterno».

Da dove si comincia quando si racconta una storia e quanto ci si può spingere lontano per raccontarla? Ma soprattutto dove bisogna fermarsi e che fine toccherà agli esclusi? Ai non narrati? Semplicemente spariranno e basta?

«Non è possibile raccontare tutto, il mondo non ha la pazienza per questo», scrive Jòn Kalman Stefànsson, ma ci sono vite che non si possono lasciare andare, che non possono essere relegate a una foto ingiallita in un bar o a una targa commemorativa appesa sopra un caminetto.

Ed è per questo che nel suo ultimo romanzo I pesci non hanno gambe (Iperborea, 2015), Stefànsson decide di comporre un album famigliare di tre generazioni, per non far svanire nell’oblio le sensazioni di chi un tempo ha vissuto, per trattenere i ricordi ancora un po’ nella memoria, prima che scompaiano anche da lì.

Ari non è solo l’inizio di una storia, o un poeta demotivato che un banale martedì manda all’aria il suo matrimonio per tornare in Islanda, prima di tutto è figlio di qualcuno che ha amato e sofferto prima di lui, è nipote di un vestito straniero senza niente sotto, di una dichiarazione d’amore fatta in silenzio con i pugni chiusi.

Non sono i nomi di Magrét, Oddur, i nonni, del padre Jakob, del cugino Ásmundur o dello stesso Ari – incastrati nei tre punti cardinali di una Keflavík che non esiste o lasciati avvizzire nei fiordi orientali di Norðfjörður – a definirne le esistenze, ma il lento e impietoso scorrere del tempo che ne plasma i caratteri, che scava i tratti e gli affetti, che fa sentire la mancanza.

E poi c’è il mare.

Il mare che «è più vasto della quotidianità», è una distesa smisurata e impenetrabile, dove ogni pensiero si libera, la sofferenza si scioglie; il mare, così grande, tiene insieme i destini e assolve le pene, eppure in mare si è soli, non ci si può affidare a nessuno, nemmeno alle preghiere, perché le preghiere sono lontane e non si odono dalla terraferma.

«Nessuno può camminare sul mare ed è per questo che i pesci non hanno gambe».

Il posto più nero di un paese circondato da questo blu infinito è ciò che si porta dentro ogni nato d’Islanda, un posto dove nemmeno Dio osa posare lo sguardo e che ha conosciuto pochi momenti di gloria, o forse solo uno, quando arrivò l’esercito americano e divenne il quarto punto cardinale, con il suo carico di dischi, M&M’s, Coca-Cola e di altri prodotti mai visti, ma poi anche l’esercito se n’è andato e questo certo non ha impedito ai figli di Keflavík di aspirare alla felicità, di trovare la dignità nel dolore e nelle lacrime.

«Sii riconoscente per le lacrime islandese», perché l’amore non cura le ferite e presto o tardi svanisce anche lui come tutto il resto, magari un banale martedì, magari sul sedile posteriore di una Lada station wagon o quando il caos entra in casa e rende tutto inservibile.

E allora forse è ancora il tempo che può venirci in aiuto, quel tempo che abbiamo inutilmente provato a rallentare, rifiutandoci di cambiare quando già siamo cambiati, adesso rende effimeri i nostri passi, ci restituisce inutili, fino a sparire.

«Cosa possiamo dire, probabilmente niente, la vita è incomprensibile, è ingiusta, eppure viviamo, non possiamo evitarlo, non sappiamo fare altro, la vita è l’unica cosa che abbiamo per certo, questo tesoro, questo ciarpame senza valore».

 

(Jón Kalman Stefánsson, I pesci non hanno gambe, trad. di Silvia Cosimini, Iperborea, 2015, pp. 448, euro 19)

LA CRITICA - VOTO 8,5/10

Stefànsson verso la fine del romanzo si chiede che valore può avere la vita se nessuno vuole sentirne il racconto, una domanda che è il racconto stesso, che consacra e rende eterno il silenzio.