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Cinema

“Il caso Spotlight”
di Tom McCarthy

La storia vera dei preti pedofili di Boston

di Francesco Vannutelli / 19 febbraio

È presentato come il film dell’anno, Il caso Spotlight, il film di Tom McCarthy passato fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia e ora tra i grandi favoriti alla corsa agli Oscar con sei nomination di quelle molto pesanti: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior attore non protagonista per Mark Ruffalo, migliore attrice non protagonista per Rachel McAdams e miglior montaggio. Perché è il miglior film dell’anno? Non è solo un giudizio soggettivo del blurb di Newsweek che campeggia sulla locandina italiana. C’è un fattore oggettivo, o almeno statistico. Nella awards season in corso – il periodo in cui il cinema statunitense premia se stesso attraverso i riconoscimenti di categoria – questa ricostruzione di una vera, fondamentale inchiesta giornalistica di inizio 2000 ha vinto diciassette volte il premio per il miglior film. Diciassette.

Certo, sembra sempre più scontato che agli Oscar ci sarà di nuovo il trionfo di Alejandro González Iñárritu con Revenant – Redivivo dopo il successo di Birdman della passata edizione, ma Il caso Spotlight è un film che ha il potenziale per diventare memorabile, uno di quei film che fanno  da riferimento quando si guarda alla storia del cinema, sicuramente alla storia di un certo genere cinematografico. Ricostruendo la vera storia dell’unità investigativa Spotlight in forza al Boston Globe (tra l’altro, c’è da chiedersi per l’ennesima volta come sia stato scelto il titolo italiano: l’originale è Spotlight e non c’è nessun “caso” Spotlight, al massimo c’è il caso su cui indagano), Tom McCarthy è riuscito ad arrivare ai livelli del miglior cinema giornalistico statunitense, vicino a quel Tutti gli uomini del presidente che è modello dichiarato e a tutti i momenti migliori dell’elogio del giornalista come eroe civile.

Il team Spotlight, quello vero e quello del film, è un’unità di giornalisti del Boston Globe specializzata in inchieste di approfondimento. Nel 2000, con l’arrivo del nuovo direttore Martin Baron, da Miami, il gruppo di reporter iniziò un’indagine sugli abusi sessuali perpetrati dalla chiesa cattolica in città. Partendo dalle segnalazioni relative a un singolo reverendo, John Geoghan, arrivarono a smantellare un sistema di omertà che coinvolgeva i vertici del cattolicesimo statunitense in uno dei primi grandi scandali sessuali della storia religiosa occidentale. L’inchiesta nel 2003 ha vinto il premio Pulitzer (in Italia la potete trovare all’interno dell’antologia Sette pezzi d’America pubblicata da minimum fax) e ha aperto poi la strada a molte altre rivelazioni.

Ci sono molti motivi per cui Il caso Spotlight è un grande film. Partendo dal primo, forse il più semplice e banale, si affida a un cast di grandissimo livello e in stato di grazia. Agli Oscar sono arrivate le nomination di rappresentanza per Mark Ruffalo e Rachel McAdams, in altri casi hanno deciso più saggiamente di premiare l’intero cast, che include Michael Keaton (sempre più ri-lanciato dopo Birdman), Liev Schrieber, Stanley Tucci e Brian D’Arcy James. Ognuno di loro ha lavorato da vicino con i veri protagonisti (un po’ di nomi: Walter Robinson, Sacha Pfeiffer, Mike Rezendes) e declina il mestiere di giornalista in modo diverso, fa capire l’universo che ognuno dei personaggi si porta appresso senza ostentarlo.

Per continuare, il film di McCarthy è probabilmente l’elegia migliore per il giornalismo classico, quello stampato nella notte. Pur essendo ambientato solo quindici anni fa, il mondo dell’informazione è oggi una cosa completamente diversa rispetto ad allora. L’edizioni online erano una novità appena accennata, non esistevano i blog. Come per le cassette di David Lipski in The End of the Tour o la contrapposizione tra il reporter vecchio stampo Russell Crowe e la blogger Rachel McAdams (di nuovo lei) in State of PlayIl caso Spotlight esalta il giornalismo di carta, quello dei cronisti che si sbattono di qua e di là alla ricerca della notizia, con i loro strumenti, i loro attrezzi del mestiere. Non siamo al «That’s the press, baby» di Humphrey Bogart, ma Michael Keaton rimane fuori dalla sede del Globe a vedere i camion partire per consegnare i giornali alle edicole, per vedere fisicamente la notizia propagarsi in città.

Soprattutto, a rendere grande Il caso Spotlight, è il modo in cui viene trattato tutto il tema degli abusi sessuali della chiesa sui minori. Boston è una città dalla fortissima identità religiosa, la più cattolica degli Stati Uniti. La formazione religiosa è parte integrante della cultura locale. La Chiesa è ovunque, è una presenza costante.

Ogni volta che i giornalisti vanno a intervistare una delle vittime degli abusi compare in qualche modo una chiesa, sullo sfondo, in un angolo della ripresa, a testimoniare la presenza che da rassicurante passa a essere minacciosa. La maggior parte degli abbonati del Globe è cattolica, il nuovo direttore Baron ha in agenda un incontro con l’arcivescovo Law come uno dei primi appuntamenti del suo mandato. L’arcivescovo gli regala una Bibbia, e gli spiega che se giornale e chiesa collaborano sarà meglio per entrambi. Eppure Baron rinuncia, perché c’è da difendere la verità, da rivelarla, è necessario smettere di proteggere i pochi per tutelare i molti.

La verità più dolorosa che il gruppo Spotlight trova indagando è che già in passato al Globe erano arrivate notizie sugli abusi, ma erano sempre state ridotte a cronaca, non denunciate come qualcosa di più grande. Senza cercare lo scandalo, senza ostentare l’orrore in primo piano, ma anzi affidandolo ai racconti delle vittime, al lavoro inesauribile dell’avvocato Mitchell Garabedian (Tucci), Il caso Spotlight fa capire l’enormità di quello che il vero Spotlight ha rivelato, della pazienza di un lavoro snervante di accumulo, di scavo nel terribile. Comunque vada agli Oscar, è un film da ricordare.

 

(Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, 2015, thriller, 128’)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Ci sono due aggettivi molto abusati quando si fanno recensioni cinematografiche. Sono “solido” e “classico”. Il caso Spotlight sembra fatto apposta per entrare in queste definizioni, nel modo migliore e più elegante possibile.