Flanerí

Cinema

“La foresta dei sogni”
di Gus Van Sant

Del bisogno dei registi di confrontarsi con la morte e fare una figuraccia

di Francesco Vannutelli / 6 maggio

Quando l’anno scorso La foresta dei sogni, l‘ultimo film del regista Gus Van Sant, è stato presentato in concorso al Festival di Cannes è stato accolto in un modo che nessuno poteva aspettare: a suon di fischi e risate. Il rapporto tra Van Sant e la Croisette è sempre stato ottimo. Nel 2003 era arrivata la Palma d’oro (e il premio per il miglior regista) per il capolavoro Elephant. Nel 2007 era stato Paranoid Park ad aggiudicarsi un premio speciale per il sessantesimo anniversario del Festival. Insomma, l’accoppiata Van Sant/Cannes di solito voleva dire cose buone.

Aggiungiamoci poi che La foresta dei sogni arrivava lanciatissimo, con protagonista Matthew McConaughey al culmine del suo anno d’oro, dopo l’Oscar per Dallas Buyers Club e il successo di True Detective e Interstellar. Insomma, sembrava dovesse essere un trionfo. È andata male.

A indispettire è come Van Sant ha deciso di riprendere un tema già affrontato più volte nel suo cinema, quello della morte. C’era già stata la celebrata trilogia del periodo 2002/2005 (Gerry, Elephant, Last Days), c’era stato già il recente L’amore che resta del 2011, ora con La foresta dei sogni Van Sant sposta il suo sguardo su gli aspetti più spirituali della scomparsa. Arthur Brennan è uno scienziato che perde la moglie. Decide di partire per il Giappone con un biglietto di sola andata, la meta finale è la foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, un luogo che per qualche motivo è diventato uno dei posti del mondo preferiti da chi si vuole togliere la vita (davvero). Ovviamente anche Brennan è lì per quello, solo che quando si siede nel luogo che ha scelto come sua ultima dimora, con la sua bottiglietta d’acqua e il suo flacone di pillole della moglie, vede arrivare un altro uomo, un giapponese di nome Takumi Nakamura, che non è riuscito a suicidarsi e vuole uscire dalla foresta. L’incontro lo costringe a rinviare il momento finale e a cercare con l’altro uomo un modo per lasciare la foresta.

Che cos’è che non va in La foresta dei sogni? Un bel po’ di piccole cose che messe tutte insieme fanno un film goffo e debole, che si espone molto facilmente al ridicolo che invece vuole spacciare per sofisticato misticismo. Tutto quanto appare così scontato ed evidente, sin dall’inizio, con Brennan McCounaghey che risponde «No, grazie» alla hostess di terra che gli chiede se vuole acquistare anche il biglietto di ritorno.

Nel tentativo di creare una tensione verso l’ulteriore, verso l’ignoto del dopo morte, Van Sant finisce per inciampare in uno spiritualismo goffo che è molto comune a quei registi che in un momento o nell’altro hanno deciso di guardare verso l’al di là in cerca di risposte. In forme diverse – e a grandezze diverse – vengono in mente Hereafter di Clint Eastwood o Ovunque sei di Michele Placido, entrambi accolti con una certa perplessità dalla critica e il pubblico.

Se è possibile, Van Sant manca ancora più il bersaglio dei suoi predecessori. Sin dal doppio binario che scandisce la narrazione – da una parte la foresta, dall’altra la vita di Brennan che scorre in flashback, con il rapporto con la moglie che attraversa litigi, riconciliazioni e drammi – fino alle rivelazioni finali che spingono ancora di più tutto il racconto verso il vasto territorio del «ma che davvero?» e del «sì, vabbè», tutto sembra improntato a un’approssimazione didascalica e piatta.

Si può provare a inquadrare La foresta dei sogni in una prospettiva che si rifà allo spiritualismo giapponese e alla sua commemorazione dei defunti, a una sorta di escatologia che mette insieme purgatorio e limbo, premorte e post-morte, oppure lo si può ridurre a un confronto tra religione e scienza, o piuttosto tra religiosità e pensiero razionale, ma non basta per trovargli una dignità.

Matthew McConaughey si sforza per salvare il salvabile, ma non può molto.

 

(La foresta dei sogni, di Gus Van Sant, 2015, drammatico, 118’)

 

LA CRITICA - VOTO 3/10

I fischi di Cannes potevano sembrare eccessivi, letti dall’Italia. La foresta dei sogni in realtà conferma tutto il suo potenziale prendendosi del tempo per rifletterci su. Solo che quel potenziale è negativo, molto negativo.