Musica
“Una somma di piccole cose” di Niccolò Fabi
Troppo Bon Iver per il cantautore romano
di Luigi Ippoliti / 28 giugno
Lo avevamo lasciato in compagnia dei suoi compagni Max Gazzè e Daniele Silvestri in Il padrone della festa. Per tornare a qualcosa di integralmente suo, bisogna guardare al 2012 con Ecco, dove spiccava la splendida “Una buona idea”. Oggi, a quattro anni di distanza, Niccolò Fabi torna con Una somma di piccole cose. Una micro rivoluzione all’interno dell’immaginario di Fabi e, di riflesso, della musica italiana a cavallo tra il mainstream dei Negramaro e l’underground de I Cani (sempre se si possa ancora parlare di underground per la band di Contessa). Una micro rivoluzione che sa, paradossalmente, di involuzione.
Spieghiamoci bene: Una somma di piccole cose è un album molto bello. Profondo da un punto di vista testuale (specialmente “Facciamo finta”, splendido, dove la somma di piccolissime cose viene esaltata in maniera esemplare), con una coerenza stilistica da lode, omogeneo. Impacchettato per bene. Nel titolo e nei suoi contenuti può ricordare lo splendido Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù. Ma è un album che abbiamo già ascoltato. Sono pezzi di cantautorato anglo-americano di questi ultimi anni che ha un riconoscibilissimo guru in comune: Bon Iver.
In un’intervista a Repubblica ha detto di essersi ispirato, oltre al cantante del Wisconsin, a Ben Howard e a Sufjan Stevens. La domanda, dunque, che ci si pone anche solo dopo qualche minuto di ascolto è: cosa spinge un cinquantenne italiano a fare le cose alla maniera di un trentenne americano – oltre al fatto che ciò che fa quel trentenne americano sia indiscutibilmente valido? La globalizzazione, certo, l’americo–centrismo, sicuramente. Forse l’ingenua convinzione che questo tipo di cantautorato sia ciò che tira oggi, nel 2016; pensare che strizzare sempre gli occhi agli americani, agli inglesi, faccia bene; rendere partecipe il pubblico che si conoscono correnti o pseudo correnti musicali che oggi o in un passato più o meno prossimo vanno o sono andate per la maggiore, quando all’orecchio un po’ più scafato un esperimento del genere suona solo come un qualcosa di molto triste: l’auto-convincimento che si stia cavalcando un’onda – quel new folk fatto di chitarre sussurrate e ambienti incorporei, di orsi, di boschi, di barbe – che in realtà si è già infranta sugli scogli qualche anno fa. Forse niente di tutto questo, ma la sensazione di disagio rimane comunque. Il disagio derivato dalla sensazione che qui si sia andati ben oltre la semplice e innocua ispirazione.
Una somma di piccole cose viaggia dunque su binari già battuti da altri, in altri lidi. Oltre a Bon Iver che, appunto, ritroviamo sparso un po’ ovunque, ci sono Iron & Wine, James Vincent McMorrow, Damien Jurado, l’iperminimalismo alla Keaton Henson (“Vince chi molla”) fino addirittura ai The National (“Non vale più”, ma anche l’impostazione pianistica di “Una mano sugli occhi” può ricordarli).
Fa sinceramente rabbia quest’album: a ogni ascolto è impossibile non pensare a quanto tutte le canzoni – fatta eccezione forse per “Le cose non si mettono bene”, che risulta quasi banalotta, specialmente nel ritornello – siano semplicemente belle; ma proprio in quel momento, quando il corpo è propenso ad abbandonarsi e a godere, segue, immediato, un ulteriore pensiero: perché mi prendi in giro, Niccolò?
Insomma: Una somma di picccole cose è il bellissimo album di Niccolò Fabi scritto da qualcun altro. Peccato.
LA CRITICA - VOTO 6/10
A quattro anni da Ecco, Niccolò Fabi torna con Una somma di piccolissime cose. Un eccesso di citazionismo copre la bellezza intrinseca che sta in ogni brano.