Libri
Ceneri dell’incompiuto
Intervista a Tommaso Giagni, autore di Prima di perderti
di Gabriele Sabatini / 5 dicembre
Prendi un motorino e un’urna funeraria contenente le ceneri di un padre; prendi un panno da avvolgerle attorno per attutire i colpi quando l’urna sarà nel bauletto dello scooter; monta in sella e fai finta di uscire dalla città, cercandone il confine. Prendi le ceneri di tuo padre e spargile su un pezzo di terreno incolto, un pratone quadrato, un lotto edificabile tutto delimitato da lamiere di cantieri; da palazzi in costruzione. Ecco le immagini che abbagliano la mente quando si comincia la lettura di Prima di perderti di Tommaso Giagni (Einaudi, 2016); ecco i pezzi che l’autore dispone fin da subito sulla scacchiera, quasi a voler segnare uno spazio scenico entro il quale i due protagonisti, un padre suicida e un figlio trentenne, si affronteranno in un immaginario duello.
Sì, perché la storia è quella di una resa dei conti fra due uomini, due scrittori molto diversi fra loro: Giuseppe – il padre – ha trascorso la vita lavorando su commissione e provando a portare avanti quello che sarebbe dovuto essere il suo grande romanzo, ma che rimarrà incompiuto; Fausto – il figlio – da enfant prodige che decide di non iscriversi all’università per dedicarsi alla scrittura, infila un successo editoriale dietro l’altro, con tre libri che rappresentano in qualche modo «lo stesso e l’opposto» lavoro del padre.
È un rapporto irrisolto, in cui tutto – dall’astio all’affetto, dal rancore alla commiserazione – ha un peso profondo e misurabile solo dai due personaggi. Un rapporto come stringhe di scarpe inestricabili, duro e intimo, in cui farsi male o decidere di recidere tutto è un lampo. Fausto «si era sempre appellato alla convinzione che ci sarebbe stata un’amnistia, fra loro: un perdono reciproco e un accettarsi, magari in un futuro remoto, in settimane di malattia e accudimento. Non è andata così». Il suicidio di Giuseppe scardina tutto, annienta qualsiasi opportunità di un confronto, sentenzia che non ci sarà mai più la possibilità del chiarimento. Sembra davvero troppo tardi, ma c’è il fantasma del padre, e con lui un inatteso appuntamento.
La prima volta che ho sentito parlare di Prima di perderti è stata alla Libreria Einaudi di Roma, dietro Santa Maria Maggiore; lo presentava Elena Stancanelli. Di Giagni ricordavo L’estraneo (l’altro suo romanzo nella Stile libero Big) e soprattutto un capitolo apparso in una raccolta di storie di calcio (Ogni maledetta domenica, minimum fax 2010) dove in poche pagine riusciva a spiegare profondamente la lazialità. Ci accordiamo per l’intervista, e gli chiedo se posso togliermi subito un sassolino: «Ma certo», risponde.
Scrivere un libro sul rapporto padre figlio significa necessariamente tener conto di una letteratura sterminata, si possono scomodare I fratelli Karamazov, si può citare il Bandini di John Fante, o per gli italiani, Il male oscuro di Giuseppe Berto (appena ristampato da Neri Pozza). Allora mi viene da chiederti quale atteggiamento hai assunto al cospetto di questa letteratura nel momento in cui ti accingevi a scrivere.
Se ti confronti con un tema del genere per forza di cose devi conoscere quello che è stato scritto prima, devi soppesarlo e trovare una tua via, una sintesi. E cercare di non farti troppo schiacciare da quei riferimenti, che sono là sopra. In parte mi era già capitato con L’estraneo, perché affrontando l’argomento delle periferie e delle borgate ho dovuto tenere conto di molti autori, come Pasolini e Walter Siti, per citarne solo un paio. Per Prima di perderti avevo un tema gigantesco, e ciò per certi versi mi aiutava perché è un argomento che si ritrova in talmente tanti libri, anche solo incidentalmente, che avevo la possibilità di intercettare i miei riferimenti e poi gestirmela come volevo. Il punto è che bisogna vedere quanto si vuole andare indietro, perché puoi fermarti al Novecento, ma puoi arrivare a Shakespeare, o spingerti sino all’Eneide. Nel momento in cui decidi di confrontarti con un tema del genere, devi mettere in conto che esistono tutte queste cose. E cerchi di non farti schiacciare, altrimenti non lo fai: un po’ ti butti.
Se il nocciolo di Prima di perderti è l’inconciliato rapporto tra Fausto e Giuseppe, non manchi di affiancare loro due figure femminili: Benedetta e Catia, quest’ultima è l’ex ragazza di Fausto, ma lui «non riesce ancora a vedere il mondo senza la voce di Catia a guidarlo». Chi è questa ragazza?
Tutto il piano emotivo e sentimentale che Fausto non riesce a tirare fuori è rappresentato da Catia. Il suo non aver saputo dare spazio ai propri sentimenti è il motivo per cui loro due si sono lasciati. Anche nei confronti del padre, Fausto non ha espresso sentimenti, e il duello è l’occasione per farli emergere. Catia sarebbe la ragazza più giusta per lui, la sua opportunità per migliorare certi piani, certi aspetti, che sono evidentemente involuti. Lui non ci riesce, rifiuta il rapporto e rifiuta la fatica che comporta essere in una relazione. La fatica e le gioie. Fausto è un arido e, nonostante Catia avesse fatto di tutto per far sopravvivere la loro storia, alla fine è scappato. Cosa che mi sembra comune nella generazione dei trentenni. Insomma, Catia incarna uno dei fallimenti di Fausto, che invece è rappresentato e si autorappresenta come un vincente. Prima di perderti è anche un libro su quanto sia difficile tracciare un confine tra fallimento e successo.
Un duello fra padre e figlio, che ha i contorni di un reciproco atto di accusa, personale e generazionale. Personale, perché Fausto accusa il padre di inettitudine, di debolezza in vita, ma viene tacciato di essere individualista; generazionale perché le responsabilità che i due si attribuiscono non riguardano solo gli aspetti più intimi e familiari delle loro vicende.
I piani sono diversi, da una parte questo duello-processo mette sul fuoco la questione più semplice e più elementare dell’emotività, della capacità di avere rapporti e della loro qualità. Loro sono persone che hanno la capacità – nel caso di Giuseppe – di spendersi verso gli altri, o – nel caso di Fausto – non ce l’hanno perché stretti nell’individualismo. Sul piano più generazionale, da una parte esiste una dimensione assolutamente collettiva, che è quella di Giuseppe, il quale sente molto una identità comunitaria, quasi clanica, che però significa anche stare chiusi dentro un recinto e aprirsi molto meno di quanto si possa proclamare; dall’altra parte c’è la dimensione iperindividualizzata di Fausto, che con la propria generazione sente di non avere niente da spartire e che si distanzia, si distingue rispetto ai coetanei.
Tra le imputazioni che Giuseppe muove a Fausto, una è molto rilevante: nei suoi libri parla sì dei margini della società, ma lo fa avendo con essi un rapporto solo utilitaristico, ossia li tocca per raccogliere informazioni o esperienze utili ai libri però non ci si immerge mai veramente. Una volta che viene soddisfatto il suo sguardo quasi entomologico, Fausto dai margini – dalle periferie – esce fuori.
È il piano più politico di Prima di perderti, che riguarda il rapporto tra centro e periferia; la condizione di privilegiati che coinvolge i due personaggi e il loro sguardo su quello che è fuori, cioè appunto sui margini. È uno degli argomenti più importanti del contendere, e le loro posizioni si scoprono essere molto meno lontane di quanto inizialmente possa sembrare. La questione è: basta frequentare un mondo che non è il proprio, una situazione socioculturale che non è quella di appartenenza, per sviluppare un rapporto che possa diventare un ponte fra due mondi, come Fausto è convinto di fare? La stessa domanda la può rivolgere Fausto a suo padre: bastava frequentare le periferie di Roma negli anni Settanta per poter dire di avere con loro un rapporto e di “servire il popolo”?
Quando Fausto sparge le ceneri del padre, questi riappare come un fantasma, e tutto comincia. Parte da lì un racconto che ha dell’onirico. Sembra di essere in Alice nel paese delle meraviglie o talvolta di fronte a degli spettacoli di magia di Voland, ma declinati in maniera meno macabra. Insomma, da quel momento la tua scrittura chiede che il lettore si fidi di te e si affidi alla narrazione, abbandonandosi un po’ al fatto che non tutto quello che accade debba rispondere necessariamente alla logica più rigorosa. È un rapporto molto intenso che vuoi instaurare con chi legge. E allora ti chiedo come l’hai gestita, questa materia.
La storia è questa: io dopo L’estraneo ho iniziato un romanzo che rimaneva in quello stesso perimetro, cioè Roma, le periferie. Il protagonista era un personaggio che già compariva in quel libro. Ho scritto una prima stesura, ma poi ho deciso di lasciar perdere: mi sembrava che questo recinto, che ben conoscevo, se da un lato mi poteva evitare un sacco di guai, dall’altro mi avrebbe però limitato molto. Mi stavo chiudendo dentro ciò che già sapevo fare. Quindi ho mollato quel romanzo e ho ricominciato facendo una scelta drastica, cioè di uscire dal – fra molte virgolette – realismo e andare in una ambientazione, in un testo, in un genere che è più assimilabile al fantastico, al visionario, all’irrazionale. Tutte qualifiche che possono sussistere a patto che si mantenga una verosimiglianza narrativa, e questo è stato lo sforzo maggiore. È vero che chi legge si deve affidare, gli si chiede una sospensione di incredulità. La mia speranza è di mettere il lettore inizialmente a disagio, in uno stato di esitazione di fronte a fenomeni apparentemente sovrannaturali, e poi indurlo a lasciarsi andare e non porsi più il problema di capire se quello che sta succedendo sia vero o falso. Che è un po’ quello che devono fare i romanzi del genere.
Fausto è dunque un personaggio autoriferito: non ha amici, ha rovinato un bel rapporto con Catia, tutto Prima di perderti è un duello col padre. Ma c’è un gesto che evidenzia la tensione emotiva, e forse la sofferenza, sottesa a questo comportamento. Un gesto di affetto minuto che Giuseppe rivolge a Vittorio, amico dell’adolescenza di Fausto. Sarebbe una cosa innocua e persino dolce, ma Fausto lì vede che esistono momenti in cui al centro delle loro preoccupazioni non c’è lui e la sua aridità, e paventa che i suoi affetti possano andare avanti benissimo anche senza di lui. E allora esplode.
Sì, Fausto si ingelosisce, e nel piano più profondo teme di non essere fondamentale. C’è tutto quello che ti puoi aspettare da un figlio che si è sempre considerato, ed è stato anche cresciuto, come un bambino prodigio; che ha sempre avuto successi nella vita, professionale, ma anche famigliare. Si è sempre sentito molto amato e molto considerato e quel gesto gli fa sembrare che il castello possa crollare.
Ci salutiamo. Nelle chiacchiere finali capisco perché non siamo riusciti a incontrarci dal vivo nonostante fossimo entrambi a Roma: a differenza di quello di Fausto, il motorino di Giagni è definitivamente fuori uso. E mentre concludo di trascrivere le domande, torno a chiedermi se mi sfugga qualcosa, di tutta questa vicenda. Ma mi consolo pensando che, in una famiglia dove un Giuseppe e una donna di nome Benedetta generano un Fausto, la risposta possa essere nei nomi.