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Libri

Letteratura come allucinazione

Gli «animali da scrittura» nella raccolta di racconti “I difetti fondamentali” di Luca Ricci

di Matteo Pelliti / 6 febbraio

Non credo che la letteratura possa vivere senza un qualche commercio con l’infimo.
Giorgio Manganelli

 

Nei quindici ritratti di scrittori di I difetti fondamentali (Rizzoli, 2017) Luca Ricci inaugura una seconda fase della sua produzione letteraria e, per farlo, si libera di una grande quantità di luminose scorie radioattive – ricordi, fantasie, condensazioni, invenzioni narrative, sceneggiature possibili – legate al mondo della produzione editoriale, attingendo anche a una delle sue passioni (l’agiografia di scrittori, l’aneddotica letteraria) e trasgredendo implicitamente, così, al famoso monito pavesiano post-mortem: la vita è pettegolezzo, ciarla e la letteratura è un immenso circo, o gioco, dove il grottesco della realtà viene semplicemente esibito, ritagliato, sbalzato a rilievo. Questi sbalzi a rilievo, come le lettere della sovraccoperta del bel volume rizzoliano, sono i quattordici racconti che compongono la raccolta, uno per ogni scrittore-tipo numerato nell’indice, più uno (l’autore dei quattordici tipi) che è, banalmente e almeno da Flaubert in poi, disciolto un po’ in tutti i quattordici tipi tratteggiati o, meglio, da lui “fecondati”. Non sono degli “alter-ego”, ma dei pluri-ego finzionali e variamente intrecciati, o sovrapponibili (Il manierista, l’affittacamere e il velleitario si somigliano, il suggestionale e il solitario potrebbero capirsi, lo scomparso e l’eccitato potrebbero andare insieme in vacanza in nome della comune erotomania, e così via…) poiché tratti che attraversano trasversalmente l’esperienza di “essere scrittore”. Ed essere scrittore, come ci ha insegnato Manganelli è, in definitiva, qualcosa di indecidibile se non nello stesso “dirsi scrittore”.1

Questo consente ai racconti di non rimanere invischiati in un meccanismo autoreferenziale (la scrittura che parla della scrittura degli scrittori agli scrittori) ma di proporsi come veri pezzi di “intrattenimento”, con variazioni stilistiche, come giochi modulari condotti su registri diversi. I quattordici tipi costituisco, allo stesso tempo, anche un unico scrittore-mostro che disintegra, per diffrazione, lo stereotipo dello scrittore come personaggio “mitico”. Ed è un libro, per questo, che allude a molti altri libri e cita, esplicitamente, molti libri fattuali e potenziali (vedi in nota un’intra-bibliografia dei fattuali).2

Detto questo I difetti fondamentali si presenta come un implacabile campionario di maschere deformate di scrittori, e fa pensare, nel tipo di lente usata, più al film I mostri di Dino Risi, che non al censimento di Gli scrittori inutili di Cavazzoni. L’iperrealismo di cui si serve Ricci non ha nessuna volontà sociologica ma muove da una semplice responsabilità morale della scrittura: la realtà è grottesca. La realtà dà l’asma (come dice Cioran, nell’aforisma che sta in esergo al racconto “Il suggestionabile”). Se il poeta è, nella catena alimentare editoriale, il pesce più debole («E i poeti cosa sono?», «Sono pesci», risponde il cumenda al figlioletto nel racconto/omaggio bianciardiano “L’adultero”, p.58) è pur vero che lo scrittore di racconti viene, nella stessa catena, appena un gradino prima; è, cioè, anch’egli un animale in via d’estinzione. In fondo questo è Luca Ricci: un “animale da scrittura” che si oppone pervicacemente, e su molte piattaforme diverse (quella della didattica, quella del dibattito pubblico, quella dell’autonomia dalle “cordate” del potere editoriale, rimanendo di fatto un “cane sciolto” lievemente selvatico e anarchicamente toscano) all’estinzione di uno spazio espressivo che è la “forma-racconto”.3

Per questo il libro di Ricci si presenta come un manifesto di difesa di uno spazio di scrittura (rivendicato fin da una copertina sfrontatamente autopromozionale in cui la classica “fascetta”, diventata ormai orpello ridicolo, è sostituita direttamente da un sopratitolo impegnativo e programmatico: “L’arte del racconto al suo meglio”). Il racconto più “militante” e – per me – riuscito è, in questo senso, “L’invidioso”, dove Ricci (che pure mette in parodia proprio qui, e per tratti, se stesso nello scrittore che insegue  «storie complicate di uomini e donne che si amavano e si odiavano, roba esistenzialista, trame fiacche, situazioni sospese tra dramma e mélo che suscitarono l’entusiasmo di qualche critico rimasto invischiato nel modernismo più abietto e radicale», p.116) espone la sua più volte manifestata teoria sulla cannibalizzazione best-selleristica del mercato editoriale (i libri-panettone da vendere sotto Natale, l’incubo della libreria che non vende più libri, «l’illusoria orizzontalità di internet») constatando che ormai, in libreria, «certa narrativa subiva lo stesso trattamento della poesia» (p. 119), i poveri pesci-poeti di cui sopra.

Ma Ricci continua a essere un “pesce grosso”, e ingombrante; le 352 pagine di I difetti fondamentali, formato 23 x 16, tipologia: CARTONATO, finito di stampare nel mese di dicembre 2016 dalla benemerita Grafica Veneta di Via Malcanton 2 a Trebaséleghe, comune italiano di 12.840 abitanti della provincia di Padova (dove, mi permetto di consigliare, organizzerei una lettura/presentazione del volume, perché il luogo di nascita “fisico” dei libri andrebbe rivalorizzato) assemblano racconti che vogliono, di più, devono manifestare questa volontà di ingombro. Quasi che, plasticamente, questo cartonato segnalasse fin dalla forma una distanza netta dalla morbida e bianca discrezione dei tascabili da 100 pagine che hanno “lanciato” Ricci come originale autore di short stories giusto una decina di anni fa. Brevità per brevità, invece, stilisticamente si può osservare che la sua prosa ha preso a mostrare oggi, da un lato, più evidenti tratti di scrittura aforistica; questa innerva infatti molti passaggi dei racconti, che inglobano spesso frasi epigrammatiche, ritagliabili dal contesto ed egualmente memorabili/utilizzabili: «Le case erano cloache di piccoli dettagli in grado di annientare i reciproci misteri» (“L’adultero”, p. 54); «Nella vita di uno scrittore c’è un momento in cui tutto cambia,e quel momento arriva quando il talento (la voce, la scrittura) si confronta con il mercato» (“L’invidioso”, p.115); «Agli scrittori interessa l’eccitazione, non il sesso» (“L’eccitato”, p.144). Ed è attraverso questi spiragli aforistici che i racconti di I difetti fondamentali rivelano aperture filosofiche e riflessioni esistenziali, soprattutto sullo stato delle relazioni amorose, sui rapporti di forza che reggono le relazioni, la coniugalità, il sesso, la famiglia. Dall’altro, i racconti custodiscono altri racconti potenziali, narrazioni che gemmano altre narrazioni (vedi i racconti del personaggio Corrado nella serata di premiazione del Premio Strega di “Lo stregato”, o il finale del racconto di strada di “La canonizzata”) e sfondamenti di natura saggistica, come il monologo sull’amore coniugale che il personaggio bianciardiano tiene in “L’adultero”.4

Il “materiale da costruzione” scritturale e narrativo di Ricci, quindi, si è con I difetti fondamentali ampliato, esteso. Rimanendo fedele, però, a un’idea di letteratura come “allucinazione” («È sempre tutta un’allucinazione, hai capito?», dice Corrado, p.176). La letteratura come trasferimento in pagina delle proprie allucinazioni agli altri, attraverso le parole più esatte possibili per esprimere quell’allucinazione. «Io credo che se una qualsiasi cosa viene scritta automaticamente perde il suo statuto di realtà, e accede a una dimensione onirica, visionaria, che è appunto quella della letteratura», dice lo scrittore “scomparso” Xavier Bellini in “Lo scomparso” e rimane questa, credo, una dichiarazione di estetica, o di poetica, che Ricci condivide con il suo personaggio. Questa poetica, la priorità della “storia”, nel senso di narrazione-racconto, sull’indistinta massa di “storie” di cui si ciba la comunicazione («Ancora comunicazione, comunicazione dappertutto», sbotta lo scrittore di “Il solitario”reclusosi in casa per sfuggire dalla “realtà” in cerca di ispirazione) è un’asse portante della raccolta di Ricci.

Vi è, infine, in tutti questi racconti, una dialettica interessante dell’urbanità tra centro e periferia che è tipica dei destini biografici ma anche, molto spesso, tematici di buona parte dei narratori italiani del secondo Novecento. Quanti tra questi suoi quattordici scrittori tratteggiati sono dei “provinciali inurbati”? E quanto questa condizione costituisce uno spaesamento e, al tempo stesso, un’accelerazione, un acuirsi delle capacità descrittive o della voglia di autoaffermarsi? Oppure, al contrario, il motivo della sconfitta, della frustrazione più cocente, come accade al ragazzo provinciale, sosia di Flaiano, quando approda in una missione “criminale” a Roma (“Il manierista”). Certo, le geografie sono funzionali al tratto del tipo di scrittore raccontato (la Torino antonomastica dell’editoria nobile in “Il rifiutato”) ma c’è qualcosa di più, qualcosa di ricorrente nella produzione di Ricci, considerandola oltre questo I difetti fondamentali. Allora in questa sua geografia ritroveremo sempre presente la nativa e provinciale Pisa, madre/matrigna, eterno teatrino universitario (“Il rothiano”), ma anche sfondo biograficamente implicito del B&B di “L’affittacamere”5 o dello studente sosia di Flaiano di “Il manierista” o l’aspirante attore e poi scrittore di “Il velleitario”; troviamo, poi, la Capitale delle terrazze, con la sua afa e il suo umidore ottobrino, una Roma manganelliana (“Lo stregato”, “Il suggestionabile”, “Il folle”, “La canonizzata”); la Milano del “lavoro culturale” dell’alienato Bianciardi (“L’adultero”) e poi troviamo un arcipelago di località marine (il Golfo dei Poeti, il litorale romano, la costa francese, il porto di Civitavecchia, la Versilia) che rappresentano sempre, e funzionalmente nei rispettivi racconti, evocando l’ignoto dell’orizzonte marino, un momento di “perdita” di sé, di messa in discussione dell’identità provvisoria che si pensa di avere, o di modificare.

In definitiva I difetti fondamentali di Ricci contiene una linea di malinconico livore, un retrogusto rancoroso e, insieme, fortemente vitalistico, che ricorda Delfini, ma anche un amore per questi «scrittori meschini», per usare un’immagine di Giorgio Manganelli6 che piacerebbe a Ricci, come traccia più propria della letterature e che lo allontana dal minimalismo rarefatto – carveriano – di alcuni suoi racconti degli esordi. Vi è continuità tematica nella discontinuità stilistica: abbonda ora nel gusto dell’onomastica letteraria, crea “personaggi”, cita libri potenziali, straborda nella narratività pura, esibita contro l’indistinta massa di comunicazione corrente dove tutto si mescola sotto l’insegna dello storytelling.

I difetti fondamentali è, per tutti questi motivi, un libro importante – mi verrebbe da dire con una frase da fascetta che non significa più nulla – proprio perché prende posizione (teorica) e, allo stesso tempo, diverte istituendo nessi tra esperienza ed espressione, tra realtà e allucinazione, che è uno dei compiti attraverso i quali la Letteratura perpetua la natura del suo mistero.

 

(Luca Ricci, I difetti fondamentali, Rizzoli, 2017, pp. 352, euro 20)

 

 

 

NOTE

1 «Lo “scrittore giovane” infatti comincia ad essere davvero uno scrittore solo quando capisce che è impossibile sapere se si è o no scrittori. Ma a quel punto si è già vecchi». (Giorgio Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990, a cura di Roberto Deidier, Roma, Editori Riuniti 2001 p. 167)

 

2 Elenco incompleto dei libri e degli scrittori citati in I difetti fondamentali:
La nausea, Jean-Paul Sartre; Lo straniero, Albert Camus (“Il rothiano”);
Gli indifferenti, Alberto Moravia; Il Gattopardo, Giuseppe Tommasi di Lampedusa, Silvio D’Arzo, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Guido Morselli; Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino (“Il rifiutato”);
– Luciano Bianciardi, Emily Dickinson, Jack London, William Faulkner, Francesco Petrarca, P.B. Shelley, George Byron, Eugenio Montale (“L’adultero”);
– Aldo Busi, Gesualdo Bufalino, Philip Roth, Saul Bellow, Roberto Bolaño (“L’affittacamere”);
– Giacomo Leopardi, Dante Alighieri, H.G. Wells (“L’eccitato”);
– Dacia Maraini; Sessanta racconti, Dino Buzzati (“Lo stregato”);
Casa “La Vita”, Alberto Savinio, Omero, Dante Alighieri, Miguel de Cervantes (“Il suggestionabile”);
– Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini (“Il manierista”);
L’Aleph, Jorge Luis Borges (“Il solitario”);
– Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, David Foster Wallace, Bertold Brecht, Virginia Woolf, Charles Bukowski, Walt Whitman, Charles Baudelaire, Francis Scott Fitzgerald (“Il velleitario”);
The entertainer, John Osborne, Pagine sparse, Benedetto Croce, San Pantaleone, Gabriele D’Annunzio, Karl Kraus (“Il folle”);
– Anna Banti, Virginia Woolf, Cristina Campo, Anna Maria Ortese, Elsa Morante (“La canonizzata”).

 

3 Sullo stesso tema Andrea Cortellessa sintetizzava così la questione in La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), L’Orma Editore, 2014 : «Una tradizione che viene però scientemente occultata dalla monocultura del romanzo propagandata, in modo sempre più tambureggiante, dall’industria editoriale. Basti pensare alla forma-racconto: nella quale i narratori italiani – da Boccaccio a Landolfi – hanno sempre dato il meglio di sé, ma che editorialmente viene considerata non meno che una iattura (sicché, quando proprio ci si arrende a pubblicare una raccolta di racconti, sempre più spesso ci si spinge a scrivere in copertina – anche di fronte all’evidenza contraria – “romanzo”)». Vedi Le parole le cose.

 

4 Traccia degli stessi materiali che compongono il monologo si trovano pubblicati precedentemente, come pezzo autonomo, su Nazione Indiana nel 2015, con il titolo di Il sesso tra marito e moglie.

 

5 Una versione contratta di questo racconto era apparsa su Minima&Moralia nel 2015 con il titolo di “Il B&B del raccapriccio”. Di particolare interesse sociologico i commenti rancorosi di alcuni lettori, incapaci di cogliere la letterarietà del testo.

 

6 «E lo scrittore meschino può essere estremamente interessante. Cosa intendo dire con meschinità? Direi, il gusto di qualche cosa di marginale, l’amore per qualche cosa che è marginale e che è amabile solo perché è tale, qualche cosa anche che è infimo. Ecco, io non credo che la letteratura possa vivere senza un qualche commercio con l’infimo. Questo credo che sia permanentemente vero». (Giorgio Manganelli, La penombra mentale, p. 187)