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Cinema

“Ghost in the Shell”
di Ruper Sanders

Hollywood prova ad appropriarsi dei manga

di Francesco Vannutelli / 4 aprile

È arrivato al cinema accompagnato da polemiche e perplessità Ghost in the Shell, tentativo hollywoodiano di appropriarsi di una delle serie di culto del cyber-punk giapponese degli anni Novanta. Per chi non la conoscesse, Ghost in the Shell è una serie sviluppata su diversi media a partire dai manga di Masamune Shirow nel 1991. È diventato un film di animazione due volte, nel 1995 e 2004, sempre con la regia di Mamoru Oshii, e insieme ad Akira di Katsuhiro Otomo ha contribuito a diffondere un certo tipo di cultura fantascientifica giapponese nel mondo occidentale. L’ipotesi di partenza è quella di un futuro non troppo lontano in cui sarà possibile creare degli ibridi uomo-macchina. All’azione si accompagna un certo impianto di riflessione sul ruolo della tecnologia nella vita umana e sulla conseguente perdita di umanità nella meccanizzazione. Un po’ di animismo e un po’ di quasi luddismo, in sostanza.

Il grande cinema americano non ha mai nascosto un forte interesse per la fantascienza orientale. Si dice che una decina d’anni fa la Dreamworks di Steven Spielberg si fosse messa al lavoro su una prima versione live action dell’anime, per poi abbandonare il progetto. Questa versione, diretta da Rupert Sanders, già dietro la macchina da presa per Biancaneve e il cacciatore, ha attirato subito su di sé l’interesse e le polemiche della stampa per la scelta di Scarlett Johansson come attrice protagonista. A essere messo in discussione non è il talento di Johansson quanto il colore della sua pelle. Per fare un film tratto da un anime giapponese bisogna prendere un’attrice giapponese, è l’essenza della critica. Da qualche tempo negli Stati Uniti si parla di whitewashing per indicare la scelta di interpreti bianchi per ruoli che spetterebbero ad altri gruppi etnici. È il caso delle polemiche intorno a Exodus di Ridley Scott, per esempio. C’è da dire che in Giappone nessuno si è risentito per il casting, anzi. Otomo, il regista dei due anime, ha apprezzato molto la scelta della protagonista ed è riuscito anche a contestualizzare il volto occidentale nell’estetica del film. La verità è che a Hollywood e dintorni si stanno specializzando nella polemica preventiva e per interposta persona ogni volta che c’è una tematica razziale in ballo. Non importa quanto sia strutturata la polemica, l’importante è dimostrare di essere sensibili.

Il problema di questo Ghost in the Shell, comunque, non è certo Scarlett Johansson, che dopo Under the Skin Lucy si sta specializzando nei ruoli di automi o alieni con scarsa umanità. Nel film interpreta il Maggiore, il primo ibrido con corpo di cyborg e mente umana. È nella mente che risiede lo spirito – il ghost del titolo, mentre lo shell, il guscio, è l’involucro robotico. Il Maggiore fa parte della Sezione di Pubblica Sicurezza 9 specializzata in azioni anti-terrorismo. La loro missione è quella di fermare una forza misteriosa che sta colpendo la più importante azienda produttrice di ibridi al mondo.

Il Ghost in the Shell made in Hollywood prende un po’ dai film, un po’ dai manga per costruire se stesso. L’impianto generale dell’originale viene mantenuto, soprattutto per quello che riguarda l’estetica dei personaggi e della città. Il futuro urbano che viene rappresentato, debitore come sempre di Blade Runner, è credibile e quanto mai vicino, oscuro, sporco e pieno di pubblicità enormi. A parte l’immagine, però, il film di Sanders non riesce a prendere altro dai modelli giapponesi. A mancare sono gli elementi di forza del cyberpunk nipponico, quella capacità di rappresentare il fascino dell’incomprensibile, di mostrare scenari senza il bisogno di spiegare tutto, lasciando lo spettatore con il dubbio e la libertà dell’interpretazione. In questo film tutto è chiaro, tutto si svolge secondo una certa lineare prevedibilità. Sembra che Sanders e gli sceneggiatori abbiano evitato ogni possibile mistero.

Oltre all’azione, comunque di grande impatto visivo, resta poco altro. Anche il contenuto più alto del modello giapponese, quella riflessione quasi filosofica sulla presenza del meccanico nell’umano, è diluito fino a diventare didascalico. Un guscio senza anima, per rimanere in tema.

Nota a margine: a parte Scarlett Johansson ci sono Michael Pitt, Juliette Binoche e la leggenda del cinema giapponese Takeshi “Beat” Kitano, che ha una presenza magnetica superiore alla media degli altri protagonisti.  È un po’ ridicolo, però, che in una Tokyo in cui tutti parlano inglese lui sia l’unico a esprimersi in giapponese, ovviamente capito da tutti e in grado di capire tutti.

 

(Ghost in the Shell, di Rupert Sanders, 2017, fantascienza, 120’)

LA CRITICA - VOTO 5/10

Hollywood prova ad appropriarsi di un classico della cultura contemporanea giapponese. Il risultato è un Ghost in the Shell che riesce a replicare la potenza estetica dell’originale senza però assorbirne i contenuti.