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Management dell’espiazione

Little Dark Age, il ritorno degli MGMT

di Luigi Ippoliti / 21 febbraio

Nel 2008, con Oracular Spectacular, gli MGMT si mostravano al mondo come ennesima promessa indie. Un indie che aveva come padre putativo i Flaming Lips. Gli Arcade Fire erano usciti l’anno precedente con Neon Bible, gli Animal Colective sarebbero usciti l’anno successivo con Merriweather Post Pavillion. Il duo americano era stato in grado, in un colpo solo a mischiare synth pop, psichedelica, pop e disco. “Electric Feel”, “Kids”, ma soprattutto “Time to Pretend”, erano colpi da fuoriclasse. C’era – e continua a esserci oggi – quella capacità nel poter essere prodotto iper spendibile sul mercato esclusivamente come prodotto (“Kids”, ad esempio, venne inserita nella colonna sonora di Fifa ’09) e nel poter essere un punto nevralgico dello sviluppo della musica contemporanea (e non che le due cose non possano andare di pari passo). Gli MGMT sono sempre stati, nonostante delle produzioni meno brillanti – molto meno, come MGMT – un fenomeno da seguire: quest’anno sono tornati con Little Dark Age.

L’attenzione attorno agli MGMT, dopo il picco di Oracular Spectacular, subì un tracollo importante, se non da Congratulations – che si distaccava dall’estetica e dalle intenzioni del suo predecessore (nessuna “Time to Pretend” all’orizzonte, ma un opera più complessa e meno immediata, cosa che probabilmente allontanò i primi fan), quantomeno da MGMT. Lì, il duo del Connecticut, scrisse un album insipido e confuso, contro il divismo che inevitabilmente aleggiava intorno a loro e con cui non volevano avere nulla a che fare.

Da allora sono passati cinque anni. In mezzo, il lavoro di remix Late Night Tales. Nient’altro. Cinque anni che non hanno reso spasmodica l’attesa del nuovo album: aspetto significativo in un’epoca in cui spesso si confonde il risultato con l’hype.

Little Dark Age, arriva dunque quasi senza aspettative. E in questo clima, che li voleva quasi all’ultimo banco di prova, ma paradossalmente senza banco, gli MGMT riemergono dalle proprie ceneri e danno vita a un album che ha lo smalto dei vecchi lavori. Questi anni, dunque, sembrano esser serviti a Benjamin Goldwasser e Andrew VanWyngarder a capire cosa voler fare e come volerlo fare.

Si sono scrollati di dosso tutta l’avversione avuta nei propri confronti dopo il successo enorme di Oracular Spectacular, riuscendo a tirare fuori qualcosa privo di auto condizionamenti forzati. Erano finite le pene da scontare.

Little Dark Age è in equilibrio tra Oracular Spectacular e Congratulations, immerso quasi completamente negli anni ’80 e pieno di giri travolgenti di basso.

In quest’album gli MGMT riescono a far emergere la psichedelica nel synth pop lungo tutte le canzoni, con un risultato notevole, di grande impatto e forte coerenza, se non in “When You’re Small” che, nonostante sia un gran pezzo, risulta completamente fuori contesto – e in più, forse, lascia troppo pensare a Something dei Beatles.

Oggi gli MGMT sono a una nuova svolta. Hanno ripreso a viaggiare rendendosi conto che negli ultimi dieci anni la musica è cambiata: con quest’ultimo album sembra di ascoltare qualcosa dei Tame Impala scritto in una discoteca anni ’80: c’è la psichedelica, lo space rock, ma anche una certa propensione al ricordo nostalgico e patinato di quel decennio. Quelle di Little Dark Age sono canzoni scritte per estati lunari che non torneranno mai più.

(Dark Little Age, MGMT, Synt-pop, Elettro-pop)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Little Dark Age si muove tra la psichedelia e il synth pop, tra i Tame Impala e gli anni’80. Dopo il passo falso con MGMT, il duo americano torna con un buonissimo album.