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L’America attraversata da Bernard-Henri Lévy

“American Vertigo”, sulle tracce di Tocqueville

di Elisa Carrara / 2 marzo

«Questa vecchia Europa mi annoia», disse Napoleone. E Bernard-Henri Lévy ne cita distrattamente le parole nel prologo del suo American Vertigo (Rizzoli, 2007): in fondo, anche il filosofo francese appare annoiato dal Vecchio Continente. O perlomeno lo è da quell’idea di Europa che da anni ormai si è impadronita di ogni spazio, economico, politico o culturale. Ma Lévy è un uomo annoiato anche dall’America e dalle sue visioni europeiste, viziate dalla distanza e dagli eventi. Lui, da buon francese, non può, né vuole, sottrarsi al confronto con gli Stati Uniti: anzi ne esplicita la necessità, ripercorrendo il viaggio del suo predecessore Tocqueville, che duecento anni prima sbarcò a Newport, a sud di Boston, in cerca dell’alchimia democratica.

È un esercizio complesso e paziente: il viaggio di Lévy deve fare i conti con Kerouac, con Hitchcock, con Steinbeck, con le strade infinite che sembrano non portare da nessuna parte, per poi addentrarsi nella realtà della provincia, nella desolazione della periferia, ben lontane da ciò che si osserva dalla piccola Europa. Il sogno di Lévy è già infranto da tempo: è il 2007 e l’America ha la parte della cattiva. Il presidente è George W. Bush, e nell’aria c’è già l’odore della crisi finanziaria che, come sempre, sarebbe partita da lì, da quel Paese colpevole di ogni cosa. Ma la strada forse, può restituirci la giusta misura delle cose: ecco perché, in molti l’hanno scelta per esplorare l’America.

Le linee che la attraversano ci riportano l’esatta distanza dei luoghi e dei fatti: gli spazi non sono contaminati dalla manipolazione del tempo. Le città americane sono lì, ad aspettare l’arrivo dei viaggiatori. Ma non rimangono immobili: lungo le strade tutto è in movimento e i luoghi nascono e muoiono continuamente. Una lezione difficile da imparare per un europeo, abituato a vedere le città sopravvivere a guerre e rivoluzioni, conservando intatti fascino e identità. In America invece la crisi spoglia le metropoli, le rende involucri pericolosi e abbandonati in fretta. Detroit, Cleveland, Buffalo: rovine dimenticate di un’America ferita, in cui i giornali chiudono, le fabbriche smettono di lavorare, la gente va via. Le città americane vivono grazie alle persone, e non viceversa come accade in Europa. Parigi, Roma, Berlino, possiedono una loro anima, estranea a qualunque presenza umana. Il pragmatismo americano ci ricorda che l’anima ce l’hanno solo le persone, e se queste soffrono non c’è luogo che possa esistere. E così se le metropoli possono morire, l’altra America, fatta di campagne, Amish e rifiuto della modernità può sopravvivere egregiamente. Anzi è proprio da lì che il Nuovo Continente trae la sua forza.

Gli eredi del Mayflower ci ricordano ancora una volta che sono gli uomini e il loro spirito a fare i luoghi e non il contrario. Ce lo ricorda anche Lévy, quando segue le tracce di Hemingway, o fa una chiacchierata con il promettente Obama, che sarà il primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti. C’è spazio anche per una donna? Si chiede Lévy, che si concede, da buon francese, una riflessione sull’affaire Clinton. L’umanesimo americano, macchiato di narcisismo, sembra perdersi e ritrovarsi molte volte durante questo viaggio: ma è proprio questo in fondo, a rendere unico questo Paese. La capacità tutta americana di sapersi mostrare e rialzare nonostante le sue mille contraddizioni.

(Bernard-Henri Lévy, American Vertigo, trad. di C. Latini, Rizzoli, 2007, pp. 405, euro 19)