Libri
La vita è semplice
Intervista a Maria Luisa Lombardo, traduttrice di “Da duemila anni” di Mihail Sebastian
di Andrea Rényi / 15 giugno
«Capita, talvolta, di avere l’onore e la fortuna di tradurre uno dei propri scrittori preferiti, com’è capitato a me con il romanzo-diario di Mihail Sebastian De două mii de ani…» scrive Maria Luisa Lombardo, la traduttrice di Da duemila anni, nel numero di maggio 2018 della rivista Tradurre. E aggiunge: «Perché un traduttore, non dimentichiamocelo, è in primo luogo un lettore, con i suoi gusti e le sue passioni. E capita anche ai traduttori, quantomeno così è nel mio caso, di sprofondare nell’atmosfera del romanzo, di mettersi nella pelle dello scrittore, con la speranza di poter trasmettere quanto più fedelmente il suo messaggio, o anche solo perché si viene travolti dal vortice della scrittura».
Per raccontare Da duemila anni ho preferito dar voce alla persona che forse meglio di tutti conosce il libro, avendolo amato e sviscerato: la sua traduttrice. Ringrazio quindi Maria Luisa Lombardo per aver accolto le mie domande, e per le sue risposte precise, sensibili e illuminanti.
Che cosa ti ha colpito di più nell’opera di Sebastian?
Un aspetto che più mi affascina del romanzo Da duemila anni è la maestria con cui Sebastian esplora i molteplici aspetti che può assumere il dramma identitario. In primo luogo, c’è la lotta contro quella “traumatica eredità ebraica” che affliggeva, fra tanti, anche l’amico drammaturgo Eugène Ionesco e che Sebastian definisce, nel romanzo, il «supplizio [di] essere figlio di un popolo di martiri». E a questa pesante eredità si aggiunge la coscienza di appartenere a due sensibilità romene discordanti: quella del Danubio e della Muntenia (rude, forte, resistente) da un lato e quella della Bucovina e della Moldavia (malinconica e dalla salute precaria) dall’altro. Il protagonista del romanzo annaspa fra tutte queste identità, alla ricerca della sua patria, di quel noi romeni che, essendo ebreo, gli viene negato sin dai banchi di scuola. Se questi, tuttavia, sembra accettare la sua sofferta identità romeno-ebrea reagendo stoicamente alla violenza e agli insulti, e soprattutto adottando una filosofia di vita all’insegna della massima “la vita è semplice”, altri personaggi si afferrano con forza ai propri ideali, vuoi per affermare il proprio status vuoi per preservare la propria identità. Esemplare è la struggente lettera che Dogany, lo studente ungherese-romeno, discriminato dalle leggi razziali dell’università di Budapest, invia al protagonista:
«Giovedì dovrò presentare i miei documenti alla segreteria della facoltà, per un nuovo controllo. Mi lasceranno restare? Sarò cacciato via? Mio padre minaccia di ridurmi la paga se non ritorno a Satu Mare. Ma non posso, non posso. Cosa vuoi che faccia lì, in un paese che non mi appartiene? Ma l’Ungheria è la mia patria? Sì, mille volte sì, qualsiasi cosa dica mio padre e per quanto tu possa ridere».
E persino la piccola comunità di inglesi in uno sperduto villaggio romeno manifesta l’ostinata necessità di preservare la propria dignità e identità attraverso il rispetto di un rigido codice dell’abbigliamento, di apparentemente buffe manie mondane. A Parigi, poi, incontriamo il cinico Maurice Buret, che sembra sottrarsi a questa lotta seppellendo il proprio Io sotto camaleontiche e schizofreniche personalità e nutrendosi del riflesso delle vite altrui.
Interessante è che tutte queste piccole battaglie per la propria identità sono accomunate, alla fin fine, dalla disperata voglia di sfuggire al soffocante e al contempo consolatore sentimento di una “dignitosa solitudine”, e a cui alcuni sembrano sottrarsi, con o senza esito, aderendo ciecamente a ideali politici o religiosi.
Quali difficoltà hai incontrato durante la traduzione e come hai potuto superarle?
La principale difficoltà è stata emozionale, vista la durezza di immagini e sentimenti presenti nel romanzo, che si è tradotta nella necessità di trasmettere nella traduzione questa intensità di emozioni. Spero di esserci riuscita, anche solo in parte.
Non so, poi, se si possa considerare una difficoltà la ricchezza di riferimenti storici, ma sicuramente è un elemento che ti porta a fare un lavoro di ricerca e approfondimento soprattutto di quegli accadimenti che conosci solo superficialmente, per la necessità di una correttezza non solo storica ma anche terminologica.
Così come avviene anche nel caso di riferimenti ad altre culture. Non sono francesista, quindi quando nel romanzo mi sono imbattuta nella parola gousa ho avuto delle titubanze. Dopo una accurata ricerca, e visto il contesto, ho scoperto (questo è anche il bello della traduzione) che si trattava del termine gousse. Un francesista sicuramente lo avrebbe colto al volo.
Mi incuriosisce la scelta di tradurre dal romeno; cosa ti ha spinto a scegliere una letteratura cosiddetta minore?
Be’, molto banalmente, ho scelto il romeno perché conoscevo molto poco di questo paese e della sua cultura. Diciamo che è stata una scelta dettata dal desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Poi, vista la mia passione per lo yoga, il richiamo di Mircea Eliade è stato non trascurabile…
Da duemila anni è la cronaca del terribile e al contempo consolatore sentimento della solitudine ebraica nella Romania, e nell’Europa fra le due guerre. Un tema su cui è bene sempre ritornare.