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Ciò che sappiamo ci rende ciechi

“Memorie del futuro” di Paolo Jedlowski

di Elisa Carrara / 6 luglio

Il mondo è difficile e imprevedibile: viviamo nella costante illusione di poter definire il futuro attraverso l’interpretazione del passato. Convinciamo noi stessi di saper disegnare un quadro coerente degli eventi in base al quale effettuare scelte per la nostra vita privata e sociale. Ma la conoscenza non ci protegge dagli errori. Le informazioni che crediamo di possedere ci rendono ciechi di fronte a una realtà che dovrebbe apparire evidente: il futuro è inatteso e complesso. Eppure è un’idea a cui non riusciamo ad arrenderci: ammettere che un fenomeno non possa essere previsto, spiegato o confinato all’interno di una credenza sicura è, secondo Robert Jervis – professore di Politica internazionale alla Columbia University – scomodo e avvilente sia dal punto di vista intellettuale che dal punto di vista psicologico.

La conoscenza del passato non rappresenta, dunque, un ancoraggio sicuro per le scelte future, perché in realtà  comprendiamo il passato meno di quanto pensiamo, come ha spiegato Daniel Kahneman nel suo Pensieri lenti e veloci (Mondadori, 2012). A dimostrarci la fragilità della conoscenza è stato, però, Philip Tetlock, in un ventennale studio dal titolo Expert political judgement: How good is it? How can we know?: ad alcuni esperti del mondo economico e politico veniva chiesto di prevedere l’esito delle più rilevanti questioni storiche del XX secolo. I risultati furono sconfortanti: a distanza di anni nessuna previsione si rivelò esatta, dimostrando che il futuro è qualcosa di molto distante dalla conoscenza storica.

Cosa sia, prova a spiegarlo il sociologo Paolo Jedlowski nel suo Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali (Carocci editore, 2017): «personalmente, ritengo che il modo più efficace di concepire il futuro sia pensarlo come una sorta di orizzonte. Potremmo chiamarlo l’orizzonte delle attese». La natura squisitamente inafferrabile dell’avvenire è sempre bilanciata dalla creazione umana di «progetti, aspirazioni e previsioni»: la forma del nostro futuro è l’espressione non solo di credenze analitiche, ma anche di forze immaginative e rievocative, messe in atto nel presente.

Jedlowski cita Luhmann e la sua distinzione tra «presenti futuri» (ciò che avverrà domani) e «futuri presenti», ossia i futuri che in questo momento possiamo immaginare. Non siamo distanti neppure da Robert Merton e dalla sua «profezia che si auto avvera», ma qui il futuro non è determinato solo da risorse cognitive e culturali, come teorizzato dal sociologo americano: la forza creatrice dell’avvenire risiede anche nelle emozioni e nei ricordi. La paura, la frustrazione, il dolore, ma anche la speranza, diventano artefici del nostro futuro e complici del nostro passato.

La memoria, ci insegna la psicologia, non è mai riproduttiva, ma sempre ricostruttiva: il presente si appropria dei nostri momenti passati, elaborandoli e interpretandoli, per pianificare i nostri comportamenti futuri e fornire un’identità coerente, come avviene nella cosiddetta memoria autobiografica. Nella narrazione del sé selezioniamo parti della nostra vita, con lo scopo illusorio, di dimostrare quanto, sia il passato sia i futuri immaginati, portassero inevitabilmente alla nostra identità attuale. E ciò appare ancora più evidente quando si tratta dell’«orizzonte di attese» di una collettività: non esiste una realtà univoca e statica, ma una rappresentazione mobile, continuamente trattabile, dei futuri possibili. La competizione tra gruppi non riguarderebbe tanto la conquista di un potere presente, quanto il desiderio di appropriarsi di una narrazione dominante, capace di offuscare altri futuri possibili.

 

(Paolo Jedlowski, Memorie del futuro,  Carocci editore, 2017, 116 pp., € 11.00)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Un’indagine sociologica sul futuro, sulla memoria e sull’identità, che abbandona la visione pratica tanto cara ai  future studies, per rivendicare una dimensione culturale e intima, capace di unire esperienze individuali e collettive.