Libri
La fantasia permette di sfuggire alla tirannide
Intervista a György Dragomán, scrittore e traduttore ungherese pubblicato in Italia da Einaudi
di Andrea Rényi / 6 agosto
Il prossimo 8 settembre lo scrittore e traduttore editoriale György Dragomán dialogherà con il giornalista e scrittore Wlodek Goldkorn al Festivaletteratura di Mantova, e il giorno successivo sarà con Federico Taddia per parlare del classico di Jaroslav Haŝek, Le avventure del bravo soldato Ŝvejk nella grande guerra (Mondadori, 2016), nell’ambito della serie di incontri intitolati “Il libro più divertente che ho letto”. Dragomán è noto in Italia grazie a due suoi romanzi pubblicati da Einaudi, Il re bianco (traduzione di Bruno Ventavoli) e Fiamme (traduzione di Andrea Rényi), entrambi tradotti anche in numerose altre lingue. Fiamme concorreva anche nella Long list del premio von Rezzori di quest’anno. Nel 2016, dal Re bianco è stato tratto un film in coproduzione inglese, svedese, tedesca e ungherese, che però non è riuscito a restituire sullo schermo la magia del romanzo.
György Dragomán è nato nel 1973 in Romania, in una Transilvania multietnica. Nel 1988 si trasferisce con la famiglia in Ungheria, dove si laurea in lingua e letteratura inglese, e ancora giovanissimo sposa la poetessa Anna T. Szabó. La coppia si stabilisce a Budapest e ha due figli. Nel 2002 esordisce con il romanzo Il libro della distruzione, per il quale gli viene assegnato il premio Sándor Bródy; i sucessivi due romanzi, noti anche nella traduzione italiana, gli valgono il premio Tibor Déry e il premio Sándor Márai. Nel frattempo Dragomán si distingue anche come eccellente traduttore di Samuel Beckett, James Joyce e Irvine Welsh.
Autore e traduttore molto apprezzato, in Ungheria Dragomán è anche un punto di riferimento: per migliaia di persone la giornata inizia con la lettura di un suo post su Facebook, dove offre piccoli scritti inediti, ricette pratiche e ben collaudate, pubblica interviste e articoli usciti sui media in cui espone le proprie ragioni (sempre con rispettoso garbo) anche con brevi estratti con i quali cerca di avvicinare i lettori ai suoi romanzi.
In vista degli appuntamenti di Festivaletteratura, Dragomán sta studiando l’italiano (che un poco conosce già), perciò ho deciso di intervistarlo in italiano. Ha risposto in ungherese, ma soltanto per timore di qualche fraintendimento.
Inizierei con una domanda che spero non troverà indiscreta: il suo cognome in italiano significa dragomanno, che come dice la Treccani è la «denominazione europea degli interpreti fra gli europei e i popoli (di lingua araba, turca e persiana) del Vicino Oriente, che svolgevano la loro funzione nelle ambasciate e nei consolati, al seguito delle missioni politiche e commerciali, nei porti e nelle dogane, nelle corti europee e presso i sovrani orientali». Per caso, aveva un dragomanno fra i suoi avi?
La parola dragomanno è presente in molte lingue e si trova anche in qualche classico ungherese come termine indicativo di un mestiere. La mia famiglia ha origini armene, insieme ad altre cento si è stabilita nel 1680 in Transilvania, dove pian piano si è trasformata in famiglia ungherese. Dicono che il nonno di mio nonno parlasse ancora l’armeno, ma mio nonno si considerava già pienamente di madrelingua ungherese. Probabilmente c’erano dei veri e propri dragomanni fra i miei avi, infatti nella mia famiglia tutti sono attratti dalle lingue straniere per tradizione. Uno dei miei primi ricordi è l’immagine di mio padre studia il francese. Anch’io attribuisco molta importanza alla traduzione e all’interpretariato, i primi soldi li ho guadagnati a quindici anni come interprete alla frontiera fra l’Austria e l’Ungheria, dove sfruttavo la mia conoscenza del romeno per fare da interprete alle guardie di confine. In seguito ho fatto il traduttore editoriale, traduco dall’inglese all’ungherese, e sono particolarmente orgoglioso di essere riuscito a tradurre Watt di Samuel Beckett, un romanzo giovanile famoso per le difficoltà di traduzione.
Abbiamo in comune l’infanzia e parte della gioventù trascorse in una dittatura, io in Ungheria e lei in Romania, e forse anche la sensazione che chi ha vissuto sempre in uno stato libero non riesce a immedesimarsi veramente nello stato d’animo e nelle limitazioni che quell’ordine delle cose comportano. Conserva il ricordo del momento, di un episodio in particolare, di quando ha preso coscienza di non vivere in uno stato libero?
La Romania della mia infanzia era una dittatura piuttosto selvaggia. Ricordo chiaramente il momento in cui presi coscienza del posto in cui vivevamo: avevo quattro anni, mio padre mi portava alla scuola materna spiegandomi che non avrei dovuto raccontare nulla di quello che si diceva a casa, e che non avrei dovuto credere a nulla di quello che mi avrebbero insegnato a scuola. Disse che se non avessi tenuto la bocca chiusa, loro sarebbero finiti in prigione e io in un riformatorio. Disse tutto questo con una tale naturalezza come se avesse voluto insegnarmi a non sputare o a non entrare nelle pozzanghere. Da quel momento in poi mi era chiaro che il regime fortemente militarizzato in cui vivevo (già alla scuola materna ci proclamavano “falchi della patria” e dovevamo indossare l’uniforme) mentiva e voleva distruggerci.
Che cosa significa far parte di una minoranza linguistica? Al suo arrivo in Ungheria – se non sbaglio era un ragazzo di quindici anni – ha trovato delle differenze fra l’ungherese della sua nativa Transilvania e l’ungherese dell’Ungheria?
In quella fase storica la dittatura assumeva tinte fortemente nazionaliste, avanzò di nuovo il concetto dello stato nazionale omogeneamente rumeno che rendeva un atto politico l’appartenere alla minoranza linguistica, parlarne la lingua, pensare o anche sognare in quella lingua. Essendo la lingua un elemento fortemente identitario, vennero gradualmente ristrette le possibilità d’uso della lingua madre della minoranza. Non fu un processo rapido, perché in quell’area geografica la tradizione del multilinguismo, la disponibilità di comprenderci reciprocamente e parlare più lingue erano ancora forti. Il potere fece di tutto per invertire questa tendenza. Da questo punto di vista posso dire di essere cresciuto sul fronte: a Marosvásárhely (nome ungherese di Târgu Mureş) abitavamo in un quartiere misto, e nel marzo del 1990 in tutto l’ex-blocco dei Paesi dell’Est in questa città ci furono i primi scontri sanguinosi tra le etnie.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, l’ungherese che parlavo non presentava differenze importanti rispetto alla lingua parlata in Ungheria. Era interessante osservare invece l’ungherese parlato subito dopo il confine con l’Austria, le sottili influenze dell’austriaco, le non molte e non sostanziali difformità nel lessico.
Finora Einaudi ha pubblicato due suoi romanzi, Il re bianco e Fiamme. In una vecchia intervista a “VS”, la bella rivista ungherese, ha raccontato dell’immagine che ha dato il via alla composizione di Fiamme: il giardino di sua nonna in cui da bambino ha trascorso molto tempo. Qual è stata l’immagine di partenza per Il re bianco?
L’avvio di Il re bianco è dovuto non a un’immagine ma a una frase: «a noi portieri consigliavano di non tuffarci dietro la palla, di evitare di toccarla, perché la palla raccoglie tutta la radioattività dell’erba». Lessi questa frase terribile e brutalmente assurda in un’intervista al portiere della Steaua Bucarest, che raccontava come si erano preparati dopo Černobyl´alla finale dei Coppa dei Campioni. L’assurdità di questa frase mi scosse a tal punto che mi sembrò di udire la voce di un bambino, e appena mi misi a scrivere sentii la voce del protagonista che mi avrebbe permesso di raccontare in questo libro tutte le paure della mia infanzia.
Come tutti, suppongo che anche lei avrà un certo numero di libri che hanno determinato, o almeno influenzato, il suo percorso intellettuale, e forse anche la sua carriera di scrittore. Non oso domandarle i titoli, so che è una domanda con qualche pericolo insito, ma mi piacerebbe sapere se crede di aver subito qualche influenza, o se invece il suo mondo, la sua tecnica, si sono formati in un modo almeno apparentemente indipendente.
Gli autori più importanti per me sono stati Orwell, Kafka, Haŝek, Beckett, Hrabal, Faulkner, Singer e Géza Ottlik, senza di loro non sarei quello che sono, ma credo che la loro influenza non sia percettibile direttamente. Ho più voci, e i romanzi tradotti in italiano possono trarre in inganno in quanto entrambi sono monologhi di bambini, anche se i protagonisti parlano in modi completamente diversi. Scrivo cose molto diverse fra loro, la voce del mio primo libro, Il libro della distruzione, è totalmente differente, e anche le mie novelle vanno in direzioni diverse. Tuttavia credo che in tutto quello che ho scritto ci sia un’atmosfera tipicamente e solamente mia, che però non saprei definire. E forse sarebbe meglio non provarci nemmeno.
Lei è felicemente sposato a una poetessa di grande talento, Anna T. Szabó, anche lei proveniente dalla Transilvania magiarofona, e siete genitori di due ragazzi, uno dei quali è affermato traduttore editoriale fin da giovane età. Suppongo che in famiglia ci sarà un forte sodalizio letterario, può parlarcene?
Viviamo dalla mattina alla sera fra libri e testi. Le giornate iniziano spesso con Anna che legge ad alta voce quello che ho scritto all’alba, oppure legge ad alta voce una poesia. (Lei spesso si sveglia con qualche verso in mente che annota rapidamente, se sono suoi, o cerca di capire di chi siano se sono citazioni o loro storpiature). Una volta i bambini scesero quatti quatti perché ci avevano sentito parlare ad alta voce nel soggiorno dopo mezzanotte. Scoppiarono a ridere quando trovarono Anna che stava leggendo poesie di Sándor Weöres. Lavoriamo entrambi a casa, scriviamo e traduciamo a casa e condividiamo il lavoro, perché stiamo insieme da quando eravamo adolescenti, e in realtà siamo diventati uno il revisore dell’altra. I ragazzi sono cresciuti in quest’officina ed era naturale che cominciassero a tradurre, a parlare le lingue e a leggere. Per noi la letteratura è una sorta di casa dove poter vivere in libertà, felicemente, e in ricchezza.
Ringrazio György Dragomán per la disponibilità e per le risposte sincere e aggiungo una notizia curiosa, un dettaglio non piccolo e non insignificante, qualcosa che lui ha sottolineato in più interviste ungheresi e che ho avuto il modo di verificare: i due romanzi tradotti in italiano funzionano anche come novelle, brevi racconti. Possiamo aprirli in un punto qualsiasi e vi troviamo una storia che oltre a comporre la trama può avere anche vita autonoma.