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Libri

La duplicità del silenzio

“Parlare non è un rimedio” di Valerio Valentini

di Edoardo Maspero / 24 settembre

«Poggiai un piede sopra lo skate e provai a stare in equilibrio. Non avevo dimenticato come si facesse, nonostante fossero passati tutti quegli anni»Parlare non è un rimedio di Valerio Valentini (D Editore, 2018), composto da ventuno racconti, ci consegna un intreccio di storie che seppur temporalmente e geograficamente distanti l’una dall’altra sono rilegate tra loro dal minimo comune denominatore della malinconia. I racconti che si mischiano nella spirale narrativa di Valentini hanno come protagoniste le relazioni, con ciò che queste comportano, causano e si lasciano alle spalle.

Non le banali relazioni d’amore che un certo tipo di editoria erge a prototipo di letteratura, nella quale mon Dieu – la sensibilità della figura maschile è incorporata in un machismo reduce dalla sofferenza causata da un destino familiare, o cosmico, ineluttabile e la figura femminile è inciampata in una confusione solenne e stanziale che altro non è se non la scusante d’un anelito d’alternatività (si veda Vedi Jojo Moyes e tutta la paraletteratura post-Moccia). Non quelle banali relazioni, dunque, ma rapporti consumati dal quieto quanto assillante ticchettio dei giorni trascorsi.

In Parlare non è un rimedio non c’è redenzione o salvezza garantita dall’amore, e se c’è si intravede solo nel ricordo di qualcosa che fu. Non necessariamente una persona, e non necessariamente una cosa che possa coincidere con il canone generale di bellezza. Non il ricordo del profumo delle margherite, ma lo stupore allo zoo, e quell’odore di carciofi che si mangiavano lontano dalla guerra, insieme alla nonna.

Il tempo è forse il vero protagonista di questi racconti. Si insinua nelle vite dei protagonisti senza che questi se ne possano rendere conto, lasciandoli alla deriva nel flusso insolubile di loro stessi.

Tutto cambia, e nel racconto Impronte, che narra la storia di una donna, Paola, che torna nella sua casa d’infanzia, Valentini esordisce con una minimalista ma notevole descrizione della sabbia, mutata anch’essa sotto la coercizione distruttiva del tempo. Una sabbia fasulla, quasi plastificata, che mette in dubbio le radici dei ricordi stessi.

In Parlare non è un rimedio la felicità, come nella vita reale, non consiste in una sfavillante dichiarazione d’amore o in una vincita al lotto, ma nell’evento inaspettato che interrompe la routine: è il caso di una nevicata, che riesce a convincere un lavoratore preoccupato per il futuro ad ammirare il mare mentre viene baciato dalla neve.

Infine non si può non parlare del silenzio, altro grande protagonista del romanzo. Il silenzio, nella sua ontologica seraficità, è soffocato quanto isterico.

Soffocato è quel silenzio che prova un padre, nel racconto Iride, quando si domanda se il figlio cieco abbia dimenticato i colori. Isterico quello che colpisce il protagonista del primo racconto (che dà il titolo alla raccolta), un silenzio dal sapore prospettico che conduce il protagonista a fronteggiare l’illogicità della situazione che sta attraversando, costringendolo, con una tristezza rabbiosa e impermalita ad ammettere che il giorno che sta vivendo, il giorno del matrimonio della sua ex, è un giorno triste. E non c’è niente da fare. E non c’è più niente da dire.

A volte si può scappare nei ricordi, quelli che recano in sé il lascito genetico avvolto dalla risacca dell’infanzia. In cui si corre via da tutto per scivolare, cadere e stare a guardare il cielo seduti su quello skateboard alieno che tanti hanno avuto da piccoli.

Allora lì il silenzio diviene parola, ed è dolce, come quando si inciampa in una madeleine della quale si era dimenticata l’esistenza.

 

 

(Valerio Valentini, Parlare non è un rimedio, D Editore, 2018, 286 pp, € 14.90)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Non si può non parlare del silenzio, altro grande protagonista del romanzo. Il silenzio, nella sua ontologica seraficità, è soffocato quanto isterico.