Varia
È arrivato il momento di parlare di “Maniac”
Sulla serie del momento firmata Netflix
di Francesco Vannutelli / 12 ottobre
Il primo istinto che viene subito dopo aver finito l’ultimo episodio di Maniac è quello di tornare indietro e rivedere subito tutte le puntate dalla prima all’ultima, una dopo l’altra. Il motivo è doppio: da un lato per essere sicuri di aver capito bene cosa si ha appena visto, nel senso di “Ho davvero visto questa cosa?”; dall’altro per cercare di cogliere tutti gli elementi sparsi in questo labirinto visionario al limite della follia. Arrivata su Netflix lo scorso 21 settembre, Maniac è una miniserie in un’unica stagione di dieci puntate ideata da Patrick Somerville e Cary Joji Fukunaga e ispirata, in parte, a una serie norvegese con lo stesso titolo del 2014.
Basterebbe, per far emergere Maniac dall’oceano di novità in arrivo ogni mese su Netflix e sulle varie piattaforme televisive e di streaming, dare un’occhiata al cast. I due protagonisti sono Emma Stone, che oltre ad aver vinto l’Oscar per La La Land è una delle attrici più interessanti e versatili in giro, e Jonah Hill, che ormai è passato dall’essere il ragazzo obeso delle commedie demenziali a un nuovo status di attore di riferimento per il cinema indipendente ad alto budget (e il merito è suo e alla sua ostinazione nel voler recitare in The Wolf of Wall Street anche a costo di farsi pagare il minimo sindacale). Fa sorridere, adesso, pensare che nel 2007 Emma Stone e Jonah Hill fossero già comparsi insieme in Superbad, commedia adolescenziale di enorme successo, e con discreti contenuti, che i distributori italiani avevano deciso di diffondere con il brillante titolo Suxbad – Tre menti sopra il pelo. Tornando a Maniac, in ruoli minori ci sono anche Gabriel Byrne, Sally Field e Justin Theroux, ma soprattutto dietro la macchina da presa c’è sempre uno dei due showrunner, Cary Joji Fukunaga, già acclamatissimo regista della prima stagione-capolavoro di True Detective e prossimamente alla regia del nuovo film di James Bond.
Maniac ha una strana ambientazione retrofuturistica, una specie di futuro prossimo immaginato da un film di fantascienza dei primi anni Ottanta, con una tecnologia molto più analogica che digitale piena di macchinari enormi e di luci. I due protagonisti, Owen e Annie, decidono di partecipare alla sperimentazione di un farmaco per motivi diversi. Owen è il rampollo meno amato di una famiglia ricchissima e bellissima perseguitato da allucinazioni paranoidi. Dopo aver perso il lavoro, non vuole chiedere aiuto ai genitori e si propone come cavia. Annie ha sviluppato una dipendenza da uno dei farmaci oggetto dell’esperimento e l‘unico modo che ha per ottenerne ancora è offrirsi come volontaria. Il test vuole verificare l’efficacia di una terapia farmacologica per curare la mente, per sconfiggere i traumi dell’inconscio senza dover più ricorrere alla psicanalisi. Il ciclo di pillole costringe al confronto con i fantasmi interiori attraverso un mix di sogno, ricordo, elaborazione e allucinazione. Tra Annie e Owen si crea subito un imprevisto legame che li porta a condividere tutte le fasi del test.
Le premesse di Maniac sono quindi quelle di una fantascienza medica, chiamiamola così, un po’ alla Strange Days («Hai mai jackato? Hai mai zigoviaggiato?»). L’intuizione fondamentale, però, è che lo spettatore si trova immerso nelle proiezioni degli esperimenti all’improvviso. Le varie pasticche portano all’elaborazione del trauma fondamentale in sogni carichi di valore simbolico che assumono i connotati di piccoli film di genere (noir, fantasy, azione). Annie e Owen sono sempre i protagonisti, ogni volta in panni diversi, con una storia diversa alle spalle, e ogni volta gli elementi delle loro vite personali appaiono come frammenti da interpretare.
Questo mix di generi rende Maniac un prodotto di intrattenimento unico, non classificabile. Sembra – e non è un caso che Somerville fosse uno dei produttori – di essere negli episodi più allucinati di The Leftovers, come l’ottavo della seconda stagione, International Assassin, in cui l’elaborazione della morte di Patti passa attraverso una trama completamente a parte. I riferimenti che vengono in mente sono tanti, da Inception a tutto il cinema di Spike Jonze e a tutto quello che ha scritto e/o diretto Charlie Kaufman. Si tratta di una forma di rappresentazione del disagio mentale allo stesso tempo semplice e complessa, carica di sottotesti e allusioni.
Maniac riesce, però, a non prendersi mai troppo sul serio, ad alternare i registri così come i generi, a far ridere e commuovere, a essere ridicola e serissima. Emma Stone e Jonah Hill sono liberi di esibire tutta la gamma del loro talento muovendosi tra i diversi generi, mentre Fukunaga si conferma un regista unico.
Senza un genere unico, senza una durata standard per gli episodi, senza una sigla, Maniac sovverte gli standard delle serie tv proponendosi come qualcosa di molto più vicino a un film. Non può piacere a tutti, come è normale che sia. Le caratteristiche principali su cui si basa – complessità, linguaggio metaforico e una bella dose di pazzia – si prestano allo stesso modo e come sempre a entusiasmi e critiche, ma è una serie che comunque non può essere ignorata.