Libri
Cosa leggeva Italo Calvino: i libri degli altri
Dall’apprendistato partigiano a Einaudi
di Veronica Giuffré / 15 ottobre
È un giovedì di maggio del 1942 quando Italo Calvino, non ancora ventenne, prende «una storica decisione: tirato fuori dal cassetto dove giaceva lo sgualcito manoscritto» di una sua raccolta di racconti, si presenta dall’editore Einaudi per proporne la pubblicazione: «Anticamera di quasi un’ora. Sfogli “Tempo” senza capire un accidente di quel che leggi… Impiegati, dattilografe che entrano escono. Signore che cosa desiderate? Io vorrei parlare col signor… Ah, dovrebbe arrivare a momenti, attendete. (Fuori dalla finestra dei muratori lavorano su un’impalcatura…) Chi devo annunciare? Oh, fa niente, tanto non mi conosce… Ecco: io ci avrei qui… Veramente noi non pubblichiamo libri di racconti; però vogliamo leggerlo… dateci il vostro indirizzo… sì, tra tre o quattro giorni vi faremo sapere qualcosa… piacere, signor Calvino, buongiorno».
Mentre racconta l’episodio in una lettera all’amico Eugenio Scalfari, non sa ancora che tra quegli uffici trascorrerà oltre trent’anni della sua vita, di qua e di là dalla scrivania dell’editore. Da qualche mese ha lasciato il nido familiare per frequentare senza troppo entusiasmo la Facoltà di Agraria a Torino, ma dovrà aspettare fino al 1945 prima di trasferirvisi stabilmente, perché gli eventi bellici lo costringeranno a spostarsi tra Firenze e Sanremo.
La formazione culturale, morale e politica di Italo Calvino si compie durante la guerra, la Resistenza e l’immediato dopoguerra. Ricordando gli inizi del suo percorso in un’intervista del 1979 a Marco d’Eramo dirà: «Quando ho cominciato a scrivere ero un uomo di poche letture, letterariamente ero un autodidatta la cui “didassi” doveva ancora cominciare. Tutta la mia formazione è avvenuta durante la guerra. Leggevo i libri delle case editrici italiane, quelli di “Solaria”».
Gli anni dell’apprendistato letterario sono documentati da una fitta rete di lettere, e soprattutto quelle a Eugenio Scalfari sono utili per ricostruire la biblioteca dello scrittore: «A poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane: le novità letterarie di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico-letteraria».
Calvino aggiorna l’amico sui suoi progressi: «Ho letto Conversazione [in Sicilia] di Vittorini […]. Magnifico oltre che per lo stile “all’americana” anche per la profondità di pensiero»; «Ho letto i drammi marini e L’imperatore Jones di O’Neill. […] Adesso mi sento a posto nei suoi riguardi e posso metterlo accanto a Ibsen e a Pirandello tra i grandi drammaturghi dialettici». E dispensa a sua volta liste di consigli letterari: gli raccomanda di leggere Cesare Zavattini, T.S. Eliot (Assassinio alla Cattedrale), Ugo Betti (Frana allo scalo nord), Fernand Crommelynck (Cucu magnifique), James Joyce (Gente di Dublino).
L’esperienza della guerra partigiana agisce da detonatore della vocazione di Italo Calvino alla scrittura, come ricorderà in un’intervista del 1985: «Le circostanze mi scaraventarono nel mezzo di un mondo avventuroso e tragico che mi dette la giustificazione per scrivere. Avevo conosciuto e sperimentato il mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani, come Hemingway e Dos Passos, che leggevo in quel periodo». Al rientro a Torino, non ha più dubbi su quale sia il destino cui andare incontro: lascia Agraria per iscriversi a Lettere e si dedica a una tesi su Conrad, autore al quale rimarrà legato per tutta la vita e che gli fornirà uno stimolo importante nella ricerca della propria voce.
È solo a partire dal 1946 che Italo Calvino comincia a «gravitare attorno alla casa editrice Einaudi» vendendo libri a rate, come racconta in una lettera ai genitori: «Ho parlato oggi a Einaudi in persona per l’impiego. Per un posto in redazione non c’è nulla da fare […]. Dovrei girare nelle fabbriche, nelle associazioni, negli uffici e cercare di sistemare libri e pubblicazioni della casa. Non un commesso viaggiatore, ma una specie di propagandista culturale, un mestiere per cui occorre un intellettuale, non un commerciante».
Il suo tirocinio editoriale coincide con un periodo di letture voraci. Scrive a Silvio Micheli nel 1946: «Se hai il sistema di farmi avere i libri gratuitamente dalle case editrici, io recensisco tutto quel che vuoi, anche l’orario ferroviario». Di lì a poco avvierà una collaborazione con diverse testate giornalistiche che gli permetterà di affinare lo spirito critico sugli autori che gli stanno più a cuore: Conrad, Hemingway, Nievo «e altri miei pallini», come scrive ad Alfonso Gatto nel 1947.
L’impegno con Einaudi diventa organico a partire dal 1950 e lo porterà a ricoprire in un arco di oltre trent’anni i ruoli di ufficio stampa, traduttore, dirigente e consulente editoriale: «Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento», dichiarerà nel 1979 a Marco d’Eramo. Un modo di intendere il mestiere di fare i libri che sarà vissuto sempre con la dedizione di una missione: «Sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro. Credo molto in questo aspetto della mia vita», scrive nel 1964 a una giovane autrice, Antonella Santacroce, che gli propone in lettura alcuni suoi racconti.
Man mano che si intensifica la sua attività in casa editrice, si susseguono gli scambi epistolari con i colleghi scrittori e le lettere di Calvino diventano una miniera di suggerimenti di lettura. A Marcello Venturi, per esempio, scrive: «M’ha detto Natalia Ginzburg che doveva scriverti e le ho detto di mandarti dei libri. Le ho consigliato di mandarti Sherwood Anderson: Storia di me e dei miei racconti e Ragazzo negro di Wright. Guarda che l’Anderson è un gran bel libro e piacerà a te come è piaciuto a me. Perché è la storia di un narratore con tutto l’amore per il nostro fottutissimo mestiere, per la tecnica del nostro mestiere». A Elsa Morante nell’estate del 1950: «Passo dei pomeriggi a pancia al sole su certi scogli solitari, leggendo Thomas Mann, che parla molto bene di molte cose a me del tutto incomprensibili».
Preziosa per ricostruire un profilo dello scrittore e dell’uomo di editoria è la raccolta I libri degli altri – da tempo fuori catalogo – che documenta la fitta rete di corrispondenza con scrittori, traduttori, critici letterari, editori ed è uno spaccato sul fermento culturale della stagione più felice della narrativa letteraria del Novecento.
Scrive ad Anna Maria Ortese nel 1953, a proposito della raccolta che di lì a poco sarà pubblicata con il titolo Il mare non bagna Napoli: «Stia allegra: lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere dei bei libri?». A Giovanni Carocci nel 1954 segnala «un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante e interessante per “Nuovi Argomenti”» (Leonardo Sciascia). A Giuseppe De Robertis nello stesso anno: «Vorrei raccomandarle di leggere, se già non l’ha fatto, il Seminara, che a me pare un notevole libro [si riferisce a Disgrazia in casa Amato, uscito tra i Gettoni], con gran risalto su ogni altra cosa di quell’autore». Al traduttore Lev Veršinin nel 1957 consiglia, tra gli altri: Pavese, Vittorini, Cassola «che talvolta ricorda la limpida tristezza del Tolstoj di certi racconti»; Brancati, «il piccolo Gogol dell’Italia sotto il fascismo» e Landolfi, «il migliore “surrealista” italiano».
Lo scaffale torinese continua a riempirsi a gran velocità e tra i molti libri che Calvino riceve, come editore e come scrittore, opera una selezione rigorosa che deve rispondere inevitabilmente anche a esigenze di spazio. Alla sua morte, i libri della casa di Torino (in via Santa Giulia) saranno donati alla casa editrice Einaudi: tra oltre un migliaio di volumi raccolti in quindici scatoloni si trovano titoli di Borges, Julio Cortázar, Silvina Ocampo; libri italiani di Arbasino, Banti, Cassola, Gadda, Landolfi, Morante, Pasolini, Pavese, Sciascia, Tobino, Vittorini e molti altri. Una mole di titoli non semplicemente posseduti e collocati in libreria, ma funzionali al suo lavoro di scrittura perché costantemente consultati, citati, riletti, sfogliati.
Seduto alla sua scrivania nell’ufficio di via Biancamano, l’immagine più nitida ed emozionante dell’artigiano editoriale Italo Calvino è il ritratto che ne traccia Giulio Bollati – apparso nel 1993 nel volume Calvino e l’editoria:
«Amava la pagina (parlo sempre di quella “servile”) come una costruzione dell’architettura coerente e organica e dalla materia straordinariamente duttile e leggera. Misuratissimo negli avverbi (“togli tutti quegli affari in ‘ente’”), prediligeva l’aggettivo nitido (ma non amava se ne facesse abuso: pochi e traslucidi), e lavorava di bulino soprattutto sui verbi. Per un verbo esaustivo, che lo appagasse con la pregnanza della sua carica semantica (meglio se complessa, e dunque stratificata e naturalmente ambigua), era capace di alzare il capo dalla scrivania, abbandonarlo all’indietro e lasciar trasparire dal volto un’infantile sazietà.
Era il momento del “Lo abbiamo trovato”».