Libri
Fanfiction preraffaellita
Eva Wanjek, “Lizzie”
di Daria De Pascale / 26 ottobre
Donne eteree dai volti trasognati, rossi e blu sgargianti, un iperrealismo esasperato per restituire vita e luce a temi antichi, biblici, medievali: sono gli elementi che caratterizzano le opere della Confraternita dei preraffaelliti, corrente artistica che si sviluppa in Inghilterra a metà Ottocento. Lizzie (Neri Pozza, 2017), romanzo di Eva Wanjek, pseudonimo degli scrittori olandesi Martin Michael Driessen e Liesbeth Lagemaat, si propone di raccontare la loro storia, dal punto di vista di colei che più ne incarnò gli ideali: Elizabeth Siddal, musa della confraternita e compagna di vita del loro fondatore, Dante Gabriel Rossetti.
Proprio l’amore intenso e distruttivo tra Elizabeth e Dante diventa molto presto il centro del romanzo, assieme alla fragilità mentale della protagonista, che la porta a sprofondare nella follia e nella dipendenza dal laudano. Resta invece appena sulla superficie la vicenda artistica dei personaggi coinvolti, ed è proprio questo a rendere Lizzie un romanzo che non mantiene le sue promesse, non all’altezza delle aspettative.
Se infatti tutti i personaggi trascorrono il proprio tempo dipingendo, circondati da un’aura bohémien fatta di vino e case fatiscenti, sembrano farlo senza una vera riflessione, carichi di ambizione e desiderio di riconoscimento sociale, ma senza una vera sensibilità estetica.
È questo che consente a Rossetti di pensare che «temeva che la sua opera di una vita fosse superata prima ancora di cominciare. Ma non aveva scelta. Ciascuno doveva fare ciò che gli riusciva meglio, e perciò lui avrebbe continuato a dipingere le donne irraggiungibili che vedeva nei suoi sogni», o a John Millais, pronto con il cavalletto a dipingere la sua opera più famosa, Ophelia, di guardarsi intorno estasiato dalla bellezza dell’ambiente, senza avere però una percezione più profonda di forme e colori, e di concedersi di pensare che «se sarò bravo […] (e sapeva che lo sarebbe stato), verrà un capolavoro». O, ancora, a Walter Deverell, colui che per primo scopre Elizabeth, di guardarla quasi esclusivamente in termini di una generica bellezza: «Era troppo bella. Non ci si poteva rivolgere a una bellezza simile come se niente fosse […]. Lo stupiva che il mondo intorno a lei non si fermasse, tanto era bella»; «Walter sentì una fitta al cuore e pensò: perché la grande bellezza ci fa male?», così come Dante, che la incontra e pensa: «Era bella, tutto qui».
Dall’uso delle parole, e in particolare di parole generiche come bello, passa la profondità di percezione di un personaggio. La confraternita descritta dagli autori sembra così avere poco a che fare con il gruppo di artisti che rifiutò e sfidò con decisione le convenzioni artistiche del proprio tempo, con l’intento di riportare nell’arte un modello visto come più puro, quello pre-rinascimentale, e che nel farlo lasciò una traccia profonda nell’arte di tutto il secolo. I protagonisti di Lizzie dipingono, sembra a volte, perché non trovano un modo migliore per passare il tempo, e anche la frustrazione che di tanto in tanto mostrano nel non raggiungere il risultato sperato non è mai duratura, non li scalfisce mai davvero: è più quella di un pittore della domenica insoddisfatto dell’esito del suo lavoro.
A guardare più in profondità, però, la ragione sembra essere una mancata riflessione sulla psicologia dei personaggi, e un’immedesimazione approssimativa in loro, così come nel mondo che li circonda. Così, pur se discretamente ben documentati sulle principali vicende delle loro vite, e sugli eventi più rilevanti del tempo, gli autori falliscono, se non in rari frangenti, nell’obiettivo di restituire vita ai loro protagonisti: essi parlano, agiscono, pensano anche molto, ma sempre a partire da due, tre tratti salienti dei loro caratteri, privi di sfaccettature.
Questo vale per tutti: per John Millais che appare per lo più come un ricco sempliciotto, e per sua moglie, Effie Gray, non la donna forte e consapevole che sceglie di lasciare un matrimonio agiato per amore, quanto piuttosto una sorta di vacca grassa sempre incinta del prossimo foglio. Ma soprattutto vale per i due protagonisti, Elizabeth e Dante Gabriel Rossetti.
Lizzie non smette mai di essere una ragazza dell’East End, colta e sensibile a dispetto della sua umile condizione sociale. A detta di tutti bellissima, «nata per essere ritratta», vive guardandosi sempre dall’esterno, pensando se stessa esclusivamente come un oggetto, desiderabile o meno allo sguardo maschile – e l’intuizione è anche molto interessante, ha la possibilità di aprire una porta sul modo delle donne dell’epoca vittoriana, ma si disperde in atteggiamenti patologici quando non francamente irrealistici, e si ha a volte la sensazione che la voce in campo non sia quella di una Lizzie sensibile alle pressioni esterne, quanto quella degli autori, che la giudicano con i canoni estetici del ventunesimo secolo. Della pittrice e poetessa apprezzata, della donna consapevole del proprio talento quale la vera Siddal era, non c’è traccia: la Lizzie del romanzo si affaccenda a tratti con pennelli e colori, ma sembra farlo più per emulazione che non per una reale spinta creativa, e fallisce sempre lasciando le proprie opere incompiute, derisa blandamente dai membri della confraternita. È un personaggio affascinante solo quando la sua eccessiva sensibilità sfocia nella depressione e nella follia, quella sì, a tratti ben raccontata negli infiniti sbalzi di umore che cambiano la sua percezione e la sua risposta alle persone che la circondano, isolandola in un silenzio che si fa mortale.
Quanto a Rossetti, lascia a tratti sgomenti il contrasto tra la delicatezza delle sue poesie, che aprono ogni parte del romanzo, e il personaggio che emerge dalla narrazione. Il Dante del romanzo non è il fine poeta, non l’intellettuale che traduce la Vita nova in inglese, non il colto pittore di Astarte Syriaca o della Beata Beatrix, che dipinge episodi della Bibbia, del mondo classico, della Commedia. Appare piuttosto come un gretto piccolo borghese, desideroso solo di fama e successo, le cui azioni non sono guidate mai da un affetto sincero, ma esclusivamente dai bisogni del momento: passa il tempo con gli altri membri della confraternita solo per giudicare il loro lavoro e confrontarlo col suo; ama Elizabeth solo finché le è utile, e non esita a sfruttare la morte del proprio padre per dirle che non vuole usarla come modella per una commissione importante, impedendole così di mostrarsi offesa o arrabbiata; si abbandona senza senso di colpa ai propri vizi, arrivando a uccidere per non pagarne le conseguenze, e a una sgradevole lascivia che sembra il suo vero tratto distintivo: tradisce il grande amore della sua vita con ogni donna che gli si offra, per poi dilungarsi in analisi spietate – davvero poco vittoriane e molto contemporanee – sulla propria vita sessuale, e desiderare Elizabeth solo «la sera in cui lei si era ricoperta di garze e si era finta una mummia. La scena lo aveva eccitato moltissimo».
Non è chiaro cosa tutto ciò abbia a che fare con le vicende di Elizabeth Siddal e Dante Gabriel Rossetti, ma scegliere di approcciarsi in questo modo a un racconto storico, seppure romanzato, non può che avere delle conseguenze sul piano della forma, così come del contenuto.
Da una parte, la lingua usata è piana, ingenua, carica di cliché e frasi fatte, inadatta a restituire la voce alle persone chiamate in causa e alla sensibilità che le loro opere mostrano, ma semmai solo alla versione scolorita che ne emerge dal romanzo. Dall’altra, nel tentativo di caricare il racconto di passione e tragedia, gli autori inseriscono nel racconto numerosi personaggi ed episodi ininfluenti, che li espongono al rischio di imprecisioni: evidenti ma poco gravi, come quando Dante «se ne stava con i palmi appoggiati sul tavolo come per farsi prendere le impronte così da potersi dimostrare innocente»; quasi imbarazzanti e non si sa quanto consapevoli, come nel caso della gita a Parigi.
Dante pensa infatti di consolare Elizabeth per il figlio nato morto portandola nella capitale francese. L’accompagna in cima all’Arco di trionfo, dove le mostra la città dall’alto, e si compiace di sapere che Haussmann prevede di cambiarne l’assetto («Tanto di cappello, Monsieur Haussmann! Chapeau!»), circondato da turisti tedeschi che salgono e scendono – quasi una versione ottocentesca della Tour Eiffel di oggi. Decide poi di mandarla a farsi preparare un vestito su misura al «famoso Atelier Printemps» – forse un riferimento ai Grandi Magazzini Printemps, che aprono nel 1865, mentre Elizabeth muore nel febbraio 1862? – per poi portarla a sera all’Opéra vedere un nuovo balletto, Le Papillon. Il ruolo della farfalla, la protagonista, è coreografato apposta per Emma Livry, famosa ballerina del balletto romantico, che però, quando compare sul palco, non incontra il gusto di Dante: «Secondo me la fata arrabbiata è un bel po’ più giovane di lei», dice a Lizzie, «E a dirla tutta, ha anche delle gambe più belle», allo stesso modo della musica e della drammaturgia. In compenso, il pittore si prende il tempo di far notare a Lizzie che il compositore, che dirige l’orchestra, «è ebreo […] Non che abbia niente contro gli ebrei, in generale». Ma tutto rientra nella consueta sgradevolezza del personaggio di Dante, fino a quando non accade l’impensabile: al passaggio della Livry accanto alle lampade a gas sul palco, il suo costume prende fuoco e, nello spavento generale, lo spettacolo viene interrotto.
L’episodio è, in effetti, realmente accaduto, ed Emma Livry è morta proprio per via delle ustioni, ma non durante una messa in scena di Le Papillon, bensì durante le prove di La muette de Portici, a novembre del 1862, quando la Siddal era morta già da mesi.
L’unico obiettivo del viaggio a Parigi, e di questo impegnativo rimescolamento della realtà, sembra quello di sconvolgere la già fragile Lizzie, e farla sprofondare in una prostrazione che la porterà alla follia e alla morte per overdose di laudano – anche se, anche in questo caso, vi è un elemento quantomeno dissonante: non si tratterebbe infatti, secondo gli autori, di suicidio, ma Lizzie sarebbe istigata da Charles Augustus Howell, agente di Dante, per nessuna altra ragione se non una inusitata indole malvagia, con tratti evidentemente psicotici, che rendono l’apparizione di questo personaggio – misterioso e ambiguo, questo sì, anche nella realtà – a dir poco disturbante.
Non c’è dubbio, però, che la necessità di caricare in questo modo personaggi e vicende sia data dalla sensazione da parte degli autori che il vissuto reale dei protagonisti, per come è stato sviluppato in Lizzie, non sia sufficiente per portare la storia al suo finale – alla morte di Lizzie e alla depressione e reclusione in comportamenti sempre più eccentrici e solitari di Dante, raccontati nel dénouement del romanzo. E almeno su questo non si può che dar loro ragione.
È per via di tutto questo che un libro di quasi cinquecento pagine fallisce nell’intento di cogliere qualcosa di più dell’apparenza sulle vite e sul percorso artistico dei preraffaelliti, e sul legame complesso, conflittuale ma non per questo meno reale tra Dante Gabriel Rossetti ed Elizabeth Siddal. Resta invece, alla fine della lettura, come un sapore di fanfiction, e la sensazione che le vite di persone reali, che hanno sofferto, amato e lasciato dietro di sé tracce così importanti siano state profanate per scrivere poco più di un romanzo di intrattenimento solo in apparenza ben documentato.
(Eva Wanjek, Lizzie, Neri Pozza, 2017, pp. 489, € 18.00)
LA CRITICA - VOTO 5,5/10
Una storia d’amore dal sapore di fanfiction, che resta solo alla superficie delle vicende personali e artistiche dei preraffaelliti e del loro tempo.